La patria nel pallone

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Cosa abbiamo rimpianto con Paolo Rossi che se ne va? La nostra giovinezza, la festa di quegli anni, la giocosa fierezza dell’italianità ritrovata. Era un’allegria contagiosa in quei giorni di prima estate del 1982, una gioia pubblica, condivisa con la gente; l’esatto contrario dei giorni nostri, dove di contagioso c’è un virus, e la depressione è l’unica condivisione con la gente, vissuta per giunta in disparte, in diffidente isolamento. In un momento in cui siamo costretti a vivere “la vita degli altri” tramite video, viviamo come nostra anche la morte degli altri.

Il Mundial dell’82 segnò una svolta nel nostro Paese. Finivano davvero gli anni di piombo, l’odio e il terrorismo, e riaffioravano in piazza le bandiere tricolori, dopo lunga, lunghissima segregazione. Dico segregazione e non scomparsa, perché lungo i decenni precedenti a sventolare le bandiere in piazza erano rimasti i missini, la destra nazionale. E il tricolore anziché essere simbolo d’unione era al contrario segno di divisione, di ghettizzazione, suscitava odio e disprezzo. Al più lo vedevi il 4 novembre, magari al cimitero, a commemorare i caduti. O sulle pance spesso ingorde dei sindaci di quegli anni.

Fu proprio il mondiale dell’82 a “sdoganare” il Tricolore e a farlo tornare nel lessico popolare. La bandiera tornò ad avere cittadinanza, e pian piano tutte le forze politiche, anche le più refrattarie, tornarono a usare il tricolore e non solo il rosso. Il patriottismo fu sublimato nell’agonismo, il conflitto si trasfigurò nel gioco, nel duello sportivo, nella competizione calcistica. Alla fine di quell’anno Giano Accame scrisse un saggio dedicato al socialismo tricolore (che uscì poi nell’83); il libro esordiva riferendosi ai Mundial: In principio fu il Pallone.

L’Italia e il pallone

È vero, la ripresa tricolore partì da lì e il primo testimonial fu un presidente socialista, Sandro Pertini, che finalmente legò la sua faccia a un evento gioioso e unitario, dopo aver accompagnato l’Italia nelle tragedie di Aldo Moro e di altre vittime di stragi e terrorismo, del terremoto dell’Irpinia, di Alfredino Rampi caduto nel pozzo, per non parlare degli anni sanguinosi e funesti della guerra civile. Ma fu un altro socialista, un socialista di altra pasta (e qui saranno d’accordo tutti, craxiani e pertiniani, seppur con valutazioni diametralmente opposte), a rilanciare su quell’onda il socialismo tricolore.

L’occasione istituzionale fu il centenario di Garibaldi che cadeva proprio in quell’82. E nell’anno del mundial fu presidente del consiglio il risorgimentale Giovannone Spadolini. Poi il triestino Lelio Lagorio al Ministero della Difesa e la passione risorgimentale di Craxi fecero il resto. Non fu un caso che in quegli anni l’Italia salì nella considerazione internazionale, fu annoverata tra le maggiori potenze mondiali; l’ascesa culminò poi nel 1985 con la notte di Sigonella (su cui la Fondazione Craxi ha pubblicato ora un dvd).

Mundial

E nell’anno seguente al mundial, la voglia di ricucire l’identità nazionale lacerata condusse anche a una forte ondata di revisionismo storico in occasione del centenario della nascita di Mussolini, tra mostre, libri e convegni. Poi certo, salì il debito pubblico e il malaffare politico, ma la vitalità di quegli anni sprizzava da tutti i porti del paese. E la faccia di Paolo Rossi, come l’urlo di Marco Tardelli e di Nando Martellini, le pipe di Bearzot e di Pertini, ne furono i simboli araldici.

Ma in principio, aveva ragione Accame, era stata l’innocenza di un pallone, la vittoria ai Mondiali, la faccia ragazza, il sorriso giocoso e il piede incisivo di Pablito Rossi. La sua morte precoce, come quella di Maradona, ci ha strappato la gioia degli anni Ottanta. L’amor patrio riscoperto negli stadi non aveva quei risvolti fanatici e violenti che ha avuto il tifo in alcuni settori più scalmanati delle tifoserie locali. Le guerre sportive di campanile hanno rallegrato per un secolo l’Italia, ma hanno avuto pure questi “falli laterali”, soprattutto alle curve. Le guerre sportive tra nazionali invece hanno quasi sempre visto la gioia collettiva, l’euforia degli stadi trasferirsi nelle vie e nelle piazze senza episodi di violenza e guerre tra tifoserie.

Fu quel decennio l’ultima vampata di giovinezza in un paese invecchiato, tra i più vecchi del mondo. Il secolo dei giovani, come lo ha chiamato Goffredo Fofi in un suo pamphlet recente, iniziato con le rivoluzioni politiche e giovanili in Russia e in Italia, proseguito dolorosamente con le guerre mondiali e civili, le imprese coloniali e sportive, riesploso con le generazioni ribelli da James Dean al ’68 e ai movimenti rivoluzionari, ballò il suo canto del cigno negli anni Ottanta, tra calcio, edonismo, voglia di vivere. Poi non fu più così, la globalizzazione coincise in Occidente con la senescenza e con la paura del terrorismo, dell’inquinamento, del contagio, del passato.

In trent’anni si andò sempre più verso il tunnel della vecchiaia. Ai giovani restò solo la padronanza del mondo hi tech. Suoni a conforto di noi contemporanei a cavallo tra i due millenni, che vivemmo da giovani il secolo dei giovani e viviamo o vivremo da vecchi il secolo dei vecchi. Col vantaggio aggiuntivo che ci fu risparmiata la metà dolorosa del primo Novecento dove essere giovani voleva dire sì dominare il mondo ma anche morire in guerra.

Però quando ti vengono a visitare senza mascherina, nell’eremo di casa tua, i ricordi animati di quegli anni ruggenti, i corpi spavaldi di Rossi e di Maradona, la palla che rotola, i verdi terreni di gioco, le colonne sonore del tempo, gli abbracci in campo e l’euforia per le strade, ti prende una nostalgia che si veste di dolce amarezza. Pezzi di noi, lacerti di gioventù se ne vanno con loro, palleggiando, fino agli spogliatoi.

MV, La Verità

 

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