Italiani e covid, ritratto di un paese spaventato e incattivito

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Italiani e covid – Che brutto ritratto di famiglia ci lascia l’Italia del 2020: metà impaurita e metà incattivita. E a volte, come i serpenti di Laocoonte, la paura e la cattiveria s’intrecciano, fino a strozzarci. Alla fine è questa l’eredità che ci lascia l’anno morente: tanta paura e altrettanta cattiveria. La cattività a cui ci ha costretto la pandemia ha esacerbato la cattiveria che già serpeggiava nel Paese, soprattutto nei social; e il timore del virus ha ingigantito la paura del prossimo, del futuro, del male.

Tra rancore e terrore finisce l’anno peggiore del terzo millennio e della nostra vita pubblica dal dopoguerra a oggi. Il ritratto complessivo più veritiero l’ha fatto il Rapporto di fine anno del Censis che coglie gli umori sotterranei della nostra società. Il Censis non fotografa i dati ma gli stati d’animo dei singoli e dei gruppi, è una specie di Istat dell’anima del popolo italiano, un istituto di sondaggi metafisici e psicologici che lavora su algoritmi trascendentali; non sono le cifre indicate ma le tendenze che evidenzia a delineare un ritratto credibile degli italiani, seduti, accasciati e sdraiati. A Re Odio e a Regina Paura avevamo riconosciuto nei mesi scorsi la sovranità dell’Italia. Il Censis ora lo conferma.

A conclusione dell’anno orribile della pandemia proviamo a riflettere a freddo su quel ritratto e a trarre qualche insegnamento. Il primo messaggio che si deduce è che la gente, seppur maledicendo e recalcitrando, alla fine preferisce la sicurezza alla libertà, cede cioè i diritti in cambio di protezione. Regressione allo stadio animale, ma animali feriti e braccati. E spaventati. La gente è disposta alla sudditanza interna e internazionale, ai diktat sanitari, pur di salvare la pelle.

O meglio l’italiano medio cerca un riparo, insegue una sicurezza che non ha e che non sente garantita da nessuna parte; ma nel nome della protezione è disposta a sacrificare la libertà, la vita, il lavoro, la sovranità, la felicità. La salute è l’imperativo assoluto che prende il posto della salvezza religiosa. Nel linguaggio dei nostri padri si chiamavano “salus” ambedue.

L’italiano non ripone speranza in figure specifiche, ha perso la fiducia in un capo carismatico, provvidenziale o protettivo; si inchina solo alla Paura. Lo spavento non spinge alla risposta comunitaria e al fronte comune ma al ripiegamento individuale o microtribale, incattivito dalla diffidenza verso il prossimo, la sua incoscienza e la sua prossimità.

Anche il nemico non è assoluto, come lo erano fino a poco tempo fa il razzista nostrano o il migrante clandestino per due fette contrapposte della popolazione. Ma il nemico di ieri oggi lo è relativamente al virus: da una parte il nemico è colui che nega il virus e dunque aiuta la sua propagazione, secondo la lettura canonica, di stato; dall’altra il nemico è colui che usa il virus per imporci altro, limitazione della libertà, manipolazione e consenso coatto, farmaci e vaccini, chiusure e miseria. Entrambi i nemici relativi vengono accusati di “intelligenza” col nemico assoluto, il covid.

La fiducia nelle istituzioni resta bassa: per il Censis la fiducia verso l’Europa e le sue istituzioni è nutrita da meno d’un terzo della popolazione. E probabilmente non dissimile è la fiducia verso il governo in carica, su cui si preferisce glissare. Ma la paura induce alla fine ad accettare le prescrizioni sulle mascherine, fino a chiedere a larga maggioranza punizioni severe per chi non le indossa o per chi viola le misure restrittive. Ancora una volta paura e cattiveria s’intrecciano.

Magari gli stessi che hanno giudicato gli altri severamente e auspicano esemplari punizioni, a loro volta non sono ligi alle prescrizioni: ma si è sempre indulgenti con se stessi, si ha sempre un alibi, si condannano gli altri per rifarsi una coscienza e passare dall’altra parte del banco. Ma un’opinione non è la garanzia di un comportamento…

La paura gioca anche un altro scherzo: risale ma, con meno fiducia di trovarlo, il sogno di un posto fisso e scende invece la voglia di cimentarsi in un’attività imprenditoriale. Nel dubbio aumentano i risparmi, seppure col terrore di patrimoniali e prelievi forzosi, magari al grido di “l’Europa ce lo chiede”.

Il discorso si fa spinoso quando dalle viscere profonde della nostra società risale un’ombra che non vedevamo da tempo: quasi la metà degli italiani è favorevole a reintrodurre la pena di morte. Con una leggera e sorprendente inclinazione dei giovani più degli anziani a favore della pena di morte. Nei decenni passati il tema della pena di morte aveva un andamento emozionale: dopo aver visto un’esecuzione negli Usa o un film sul tema, l’opinione pubblica favorevole calava; viceversa dopo un crimine particolarmente efferato, la percentuale saliva.

Ai tempi del terrorismo era alta. Oggi quali sono i fattori che fanno risalire la richiesta di pena di morte? I femminicidi, i crimini contro l’ambiente e la salute pubblica quasi scavalcano le richieste di pena capitale per i “consueti” orrori (stragi di terroristi, crimini di pedofili, ecc.). Temi più da “progressisti” che da conservatori o reazionari. Difficile distinguere tra sete di giustizia e sete di vendetta. Tra assunzione di responsabilità fino in fondo o esplosione d’odio e rancore canalizzata verso alcune figure-tipo.

La domanda che resta aperta ma necessaria è una: riusciremo col tempo a governare la paura e l’incattivimento, riusciremo a non farci imprigionare da essi ma a controllarli, frenarli e perfino a trasformarli da pessimi vizi in stimolatori di virtù? Al momento non si intravedono energie vitali e reagenti per compiere l’alchimia prodigiosa di trasformare un veleno in farmaco. Così restiamo seduti, accasciati, sdraiati.

MV, Panorama

 

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