Maradona, quel dio pagano adorato a sud

MARADONA

È morto un dio, secondo il popolo, i tifosi e i media. L’addio a Maradona tra pianti e incensi, ha risvegliato il paganesimo latente di Napoli, del calcio e di ogni sud del mondo. Mai come per lui la morte è stata salutata come quella di una divinità o una entità soprannaturale, associato con insistenza al nome di Dio, all’Eterno e al Paradiso, dove un giorno si troverà a giocare con Pelé. Non è accaduto nemmeno a papi, santi e grandi di ogni risma che si evocasse il nome di Dio alla loro morte con tale ricorrenza.

Maradona era già morto da anni, da quando aveva smesso di giocare. Reciso dal suo campo, era come sfiorito; e degenerato nel corpo, nella vita e nelle azioni. Gli erano sopravvissuti un’ombra e un mito. L’ombra è quella figura grassa, ingombrante, che aveva preso il suo posto, in lotta col mondo, col fisico e col fisco, con la droga e con la malavita, con la famiglia e con la malattia. Il mito è quello che si era staccato dalla sua persona quando finì di giocare e già viveva per suo conto in cielo, nei poster, nei murales, nella memoria collettiva.

Maradona è stato la leggenda del sud, dal sud America al sud Italia. Si, il riscatto, il sollievo, il sogno, l’oppio dei popoli meridionali. Ma è stato la sua leggenda. Con la palla gli altri giocavano, lui ballava il tango; la palla era la sua senorita, la sua compagna di ballo. Faceva coppia inseparabile, senza la palla smetteva di essere il mito, era solo un’ombra. Lo ricordo una volta, il Maradona postumo, che la stringeva a sé facendo giri di campo, come un bambino, perché non era più in grado di farla ballare. Ma aveva smesso di essere Maradona, era la sua controfigura in terra, il suo tabernacolo svuotato.

Maradona sembra quasi un’invenzione di Borges, all’insaputa dello stesso autore; e dunque borgesiano in purezza. Una figura epica, di quelle che Borges ha raccontato tra i suoi eroi, gauchos, cantori e tanghéri, partorita da un intreccio favoloso tra storia e diceria, ricordi, fantasia e mitologia. Con BorgesChe Guevara ed Evita Peron, Maradona rappresenta il mito argentino nel mondo (c’è ora un quinto argentino ma neanche in patria è sentito come un grande).

La morte di Maradona va al di là del calcio e dello sport perché è stato un test vivente di antropologia del sacro. È composta di tre elementi: la mitologia pagana, l’inconscio collettivo, l’indole monarchica. Procediamo con ordine. Torniamo al paganesimo che cova sottotraccia nella nostra società, soprattutto del nostro sud, così pieno di santi, madonne e leggende miracolose.

La mitologia pagana di Maradona è fondata sull’adorazione del suo corpo. Non accade a tutti i divi dello spettacolo. Le rockstar, per esempio, sono venerate ma la loro presenza fisica viene dopo la loro voce e il loro suono, le vibrazioni incorporee prevalgono sulla loro corporeità, anche quando è potente.

Il calciatore Maradona è invece il suo corpo, i suoi piedi, le sue gambe, la sua testa, perfino la sua mano (“mano di Dio”, naturalmente), e il suo rapporto con la terra, le sue azioni sul terreno di gioco, in campo. Fisicità assoluta, culto del corpo.

Alla mitologia pagana si unisce un secondo aspetto: il suo corpo, la sua figura, la sua arte erano la proiezione di un corpo sociale, di una figura collettiva, di un immaginario popolare. In lui avveniva un processo di identificazione e osmosi dei tifosi, dello stadio, della città. Incarnava lo spirito della comunità; era il suo corpo in azione, le sue gambe, la sua testa. Se esiste qualcosa come l’inconscio collettivo, secondo quanto ci ha insegnato Carl Gustav Jung a proposito degli archetipi, o se esiste l’intellettuale collettivo, secondo quando diceva Antonio Gramsci, esiste pure qualcosa che è il giocatore collettivo, l’emanazione di un organismo plurale, comunitario. Uno per tutti, tutti per uno. Corpo mistico.

Infine, riemerge con Maradona un’altra profonda vocazione napoletana e meridionale: l’indole monarchica, la ricerca del Re (O rey veniva chiamato pure Pelè) come il padre glorioso, magnifico, impareggiabile.

Il paragone più ricorrente a Napoli da quando è morto non è stato con Pelè, con Messi, e nemmeno con i predecessori a Napoli, come Sivori e Altafini, per esempio. Ma con san Gennaro, e dietro la facciata spiritosa e paradossale delle battute, si nascondeva una verità: Maradona aveva sostituito in molti tifosi il santo e in molti napoletani è stato visto come la continuazione in terra dell’amatissimo patrono. Anche lui scioglieva il sangue, ma non il proprio, quello del suo pubblico in visibilio. Così dicevano i napoletani.

La differenza, però è che il culto di san Gennaro dura da qualche secolo, ha resistito perfino alla rivoluzione atea e giacobina di Napoli del 1799. E tra cinquant’anni, tra un secolo, forse, resisterà ancora. Non resisterà invece il culto di Maradona, che tocca solo chi lo vide giocare. Maradona è un dio, ma un dio provvisorio, come gli “dei momentanei” di cui parlava uno studioso di mito e filosofia, Mario Untersteiner. Come dicevano gli antichi: Fama? fumus Homo? humus Finis? Cinis.

L’eternità che molti hanno evocato a suo proposito durerà finché sarà vivo il suo ricordo, ovvero finché ci saranno vivi che lo ricorderanno. Non è destinato a tramandarsi. “La morte – scrive Valerie Perrin – comincia quando nessuno può più sognare di te”. Maradona finirà col suo pubblico, sopravvivrà fino a che lo sognerà l’ultimo dei suoi ammiratori.

MV, La Verità

 

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