La Morte della Patria nella cultura

Le idi di aprile cadono alla metà del mese nel calendario romano. Come accadde con le idi di marzo, anche le idi di aprile sono legate a un evento tragico della storia recente: il 15 aprile di 75 anni fa fu ucciso Giovanni Gentile, il filosofo della nazione. Non tornerò a raccontare del suo assassinio, dei suoi sicari e nemmeno del suo ruolo durante il fascismo, né mi spingerò tra le sue opere e il suo pensiero filosofico. Ma ricorderò quell’assassinio ad opera dell’Intellettuale Collettivo come un parricidio rituale che volle decretare la fine del pensiero nazionale. Se l’8 settembre fu per molti storici la Morte della Patria, il 15 aprile del 1944 fu uccisa l’identità culturale italiana attraverso il suo principale teorico e mentore, nelle sue opere, nei suoi discorsi e in due grandi imprese, la riforma della scuola e dell’educazione nazionale e la nascita dell’Enciclopedia italiana.

Dopo Gentile, scrissi in un libro a lui dedicato, non ci fu più grande filosofia italiana; quel che ne seguì o non fu grande o non fu vera filosofia o non fu italiana. O, più spesso, non fu nessuna delle tre. Ma soprattutto si perse l’idea di un pensiero italiano, di una linea italiana, di un’ideologia italiana, se vogliamo tradurla nel gergo militante del Novecento.

Curiosamente, se Gentile fu l’ultimo filosofo a pensare l’Italia, il suo più noto e irrequieto allievo, Ugo Spirito, fu il primo filosofo a pensare alla fine dell’Italia in un mondo unificato dalla scienza. Anche Spirito morì nei giorni d’aprile di quarant’anni fa. La sua filosofia non elaborò solo il lutto dell’attualismo gentiliano ma anche della civiltà umanistica, ritenendo che l’avvenire fosse legato alla cibernetica e alla bioingegneria, al collettivismo e all’onnicentrismo, e la politica dovesse finire per dar luogo al potere dei tecnici e dei competenti e che non avesse più senso parlare di Italia e di identità nazionale. Il pensiero di Spirito nasceva dalla constatazione di un quadruplice tramonto: della religione, della filosofia, della storia e della politica. Che erano invece le categorie su cui Gentile aveva fondato la sua filosofia dell’identità. Per Spirito invece, l’attualismo di Gentile aveva raggiunto il punto estremo della filosofia; dopo ci sarebbe stata solo la scienza. Se l’eredità del pensiero passava alla scienza, l’eredità della nazione rifluiva nella dimensione planetaria. Restava come filo d’Arianna con l’idealismo di Gentile, l’Umanesimo del lavoro ma collegato alla scienza e alla tecnica e non più alla storia e alla filosofia, tantomeno alla religione. Il pensiero di Spirito fu un ponte sospeso tra il fascismo eretico delle origini e il comunismo eretico del dopoguerra, per risolversi in un’attesa messianica della scienza che unifica il mondo. Dall’ultimo e principale filosofo della nazione nacque il primo filosofo italiano della globalizzazione e del dominio planetario della tecnica e dell’economia…

Ma aprile fu il più crudele dei mesi, come scrisse Eliot, “genera lillà dalla terra morta, mescola memoria e desiderio, desta radici sopite con pioggia di primavera”. E furono particolarmente crudeli le idi di aprile con chi ebbe a cuore le sorti dell’Italia e della sua identità culturale. Il 15 aprile del 1984, chiudendo i lavori della Fondazione dedicata a suo padre lo storico Gioacchino, Giovanni Volpe si accasciava e moriva in Roma. Cattolico nazionale, ingegnere-editore don Chisciotte, aveva combattuto nel nome del padre una lunga battaglia per l’identità culturale e storica italiana. Pubblicava libri e riviste controcorrente, quel fiume sommerso in cui si manteneva viva l’identità nazionale.

Il 15 aprile di dieci anni fa veniva a mancare Giano Accame, scrittore e giornalista, fautore del socialismo tricolore, della destra sociale e rivoluzionaria, del presidenzialismo nazionale. Veniva da destra, dal vecchio Msi neofascista ma ebbe una vita da eretico: s’innamorò dell’eroe antifascista e repubblicano Randolfo Pacciardi e del suo progetto per una nuova repubblica presidenziale; difese i giovani del ’68 e la contestazione in polemica con Evola, il Borghese e la destra d’ordine che li criticavano (quei testi sono ora ristampati in “Evola e il ’68”, uscito da L’arco e la corte a cura di Alessandro Barbera); sposò l’economia e la guerra all’usura nel segno di Pound; poi s’innamorò di Craxi e del socialismo tricolore, dialogò con intellettuali e politici di sinistra, ma rimase convinto di una cosa che testimoniò per tutta la vita: l’amor patrio, l’identità culturale italiana, il senso della nazione. Era un sovranista ante litteram e si dichiarava populista già nei primi anni Ottanta. Ma il 15 aprile di dieci anni fa, dopo un lungo viaggio in partibus infidelium, nelle terre dell’eresia, volle farsi seppellire con la camicia nera. Curioso destino per un socialista tricolore che amava superare gli steccati di destra e sinistra e dialogare con tutti. La stessa cosa accadde a un altro noto giornalista, che pure aveva fama di conservatore e liberale, che in punto di morte chiese a sorpresa, di farsi seppellire, lui postero, con la camicia nera: Franco Cangini, innamorato dell’Italia.

Mi scuso per questo necrologio nella Domenica delle Palme, ma ho voluto percorrere la spoon river italo-culturale sull’onda del fatidico 15 aprile, partendo da Gentile, per ricordare dove finì e dove si rifugiò il pensiero nazionale. Se la tradizione è la paternità di un popolo, come scrisse Gentile, il parricidio di Gentile e poi la morte di Volpe e di Accame, segnarono la perdita dei padri culturali e spirituali di un’Italia smarrita.

MV, La Verità 14 aprile 2019

 
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