Gli ayatollah della felicità obbligatoria

felicità

Un estratto da un articolo di Veneziani pubblicato su Il Giornale nei primi anni Duemila. Una riflessione sulla felicità, sull’infelicità e sulla condizione umana più attuale che mai

(…) Nel codice genetico e costituzionale dell’America c’è il diritto alla felicità. Strada facendo, pero, il diritto alla felicità si e trasformato in un dovere, e da qual punto la felicità e diventata una bestia feroce, insaziabile e spietata.

Infatti la ricerca umanissima della felicità si è trasformata in una specie di imperativo, di ossessione. Se oggi dovessi indicare il male comune di cui soffre il mondo intero, direi proprio questo: è il dovere della felicità.

Nel nome di questo dovere si compiono i peggiori crimini e anche i minimi stillicidi quotidiani.

Una grande filosofia di vita dovrebbe liberarci da questo dovere, padre di tutte le sciagure; perciò permettetemi di tessere nei giorni mesti di una strage avvenuta e di una guerra che verrà, un sobrio elogio della tristezza, come condizione reale dei nostri giorni.

C’è un tempo per l’allegria e uno per la malinconia; non vergogniamocene, non trattiamo la tristezza come una malattia, non medicalizziamola come se ci trovassimo di fronte a una patologia da curare con i farmaci e con la condanna sociale.

La tristezza fa parte della nostra umanità più delicata e più profonda, è un tratto nobile che vela il nostro volto, è uno stato d’animo e non uno stato di errore; e non c’è gioia viva e piena che non accetti la sua ombra, la sua controparte.

L’idea di una gioia permanente non fa parte dell’umano, è roba da dei o da automi, da replicanti senz’anima o da ideologie per padreterni. La prescrizione della gioia, e la proscrizione del dolore, alimentano l’infelicità anziché alleviarla.

Un conto è reagire alla sciagura e alla paura, avere forza d’animo e sapere perfino scherzare sul crinale del pericolo; un altro è imbottirsi di questo prozac artificioso, ubriacarsi di melatonina o cercare patetici viagra dello spirito.

La depressione è dilagata da quando esiste l’obbligo della felicità e chi non la raggiunge si sente un escluso, un incapace, un frustrato e un malato.

Ha ragione Pascal Bruckner nel suo saggio L’euforia perpetua a stigmatizzare le società che hanno come loro parametro assoluto la Felicità Nazionale Lorda, una specie di edonometro che misura e promuove il tasso di felicità.

Pericoloso è misurare la qualità e la dignità di una persona dal grado di felicità che raggiunge; ma tragico è applicare questa norma ai popoli interi. Tutti i tentativi di raggiungere il paradiso in terra sortiscono l’effetto di propiziare gli inferni.

Perché non c’è solo l’utopia edonista della società gaudente, ma c’è anche l’utopia salvifica della società futura.

Se voi raschiate dietro il sogno delle rivoluzioni, dai giacobini ai comunisti, trovate una parola d’ordine: guerra all’infelicità, che poi coinciderebbe con la felicità di pochi.

Nel secolo scorso Lassalle diceva: «Il popolo non sa che è infelice. Glielo insegneremo.» Ci sono riusciti, purtroppo, nella loro pedagogia della scontentezza; ma il risultato non è stato quello di allargare la felicità o di propiziarne l’avvento; ma di aprire il vaso di Pandora delle infelicità.

Il signorino insoddisfatto di cui parlava Ortega y Gasset, è diventato così di massa; viviamo tra legioni di leopardiani annoiati, come diceva Labriola. Le rivoluzioni hanno seminato odio, a opera di Agenti divini e infelici della Felicità Ventura.

Ma anche i terroristi islamici uccidono nel nome della felicità; il loro paradiso è molto terrestre, è fatto di prelibatezze e sfizi eterni, il piacere che si eternizza. E non è un diritto, come pensavano i pionieri dell’America, ma un dovere; costi quel che costi. Anzi se più costa più ha valore. Più soffrite e fate soffrire, più si gode, dopo.

Ora è di questo assillo alla felicità che noi dobbiamo liberarci. Primo, liberandoci dall’idea che la felicità sia un obbligo sociale, un dovere pubblico prescritto dalla Costituzione. Secondo, liberandoci dall’idea che la felicità sia il nostro dovere personale, il senso e lo scopo della nostra vita.

Ma soprattutto liberiamoci dall’idea che la felicità sia una specie di selvaggina che noi dobbiamo catturare, appostandoci per ore, attrezzando trappole mortali e usando ogni mezzo per carpirla. Perché la felicità non è un dovere né un diritto, ma uno stato di grazia che arriva quando nessuno se l’aspetta e se ne va appena riusciamo a realizzare che siamo felici.

È un’ebbrezza non un’ideologia, un soffio e non un mestiere. Voi statisti, militari, religiosi, scienziati, non preoccupatevi della nostra felicità, non vi riguarda. Lasciatevi andare, contemporanei, alla leggerezza, lasciatevi baciare dalla carezza della gioia nelle sue dolci imboscate, inattese, insperate.

Non state lì a teorizzare e a istigare alla felicità. Concedetevi pure la libertà di essere tristi, il diritto alla malinconia, senza per questo chiamarla depressione o angoscia. Ne abbiamo diritto, soprattutto di questi giorni.

 

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