Pertini, il Presidente impertinente

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Pertini – Il 24 febbraio di trent’anni fa moriva Sandro Pertini, il Presidente della Repubblica più amato dagli italiani, dice l’agiografia istituzionale. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il furetto-partigiano che esce dal protocollo. L’Impertinente. Il Puro. Il Coraggioso. Integriamo quel santino raccontando l’altro Pertini, a cui già dedicammo un controritratto e anche una controrievocazione a Genova aspramente avversata dall’Anpi.

Dunque, alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’Avanti! e all’epoca capogruppo socialista celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa scrisse su l’Avanti!: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio non fu mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin.

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Da Presidente della Repubblica il compagno Pertini concesse appena eletto, la grazia al boia di Porzus, l’ex partigiano comunista Mario Toffanin, detto “Giacca”, nonostante questi non si fosse mai pentito dei suoi crimini per i quali era stato condannato all’ergastolo. Toffanin fu responsabile del massacro di Porzus, febbraio 1945: a causa di una falsa accusa di spionaggio, furono fucilati ben 17 partigiani cattolici e socialisti (la “Brigata Osoppo”), da parte di partigiani comunisti (Gap). Tra loro fu trucidato il fratello di Pasolini, Guido. Dopo la grazia di Pertini a Toffanin lo Stato italiano concesse al criminale non pentito pure la pensione che godette per vent’anni, insieme ad altri 30mila sloveni e croati “premiati” dallo Stato italiano per le loro persecuzioni antitaliane. Pertini partecipò poi commosso al funerale del presidente jugoslavo Tito (1980), il primo responsabile delle foibe, baciando quella bandiera che destava terribili ricordi negli esuli istriani, giuliani e dalmati.

Pertini fu uno spietato capo partigiano. Il suo nome ricorre, per esempio, nella tragedia della coppia di attori Valenti-Ferida. Luisa Ferida aveva 31 anni ed era incinta di un bambino quando fu uccisa dai partigiani all’Ippodromo di San Siro a Milano assieme a Osvaldo Valenti, il 30 aprile 1945, accusati di collaborazionismo, per aver frequentato la famigerata Villa Triste, a Milano, sede della banda Koch. L’accusa si dimostrò infondata al vaglio di prove e testimonianze; lo stesso Vero Marozin, capo della Brigata partigiana che eseguì la loro condanna a morte, dichiarò, nel corso del procedimento penale a suo carico: «La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente». I due attori, infatti, pagarono la loro vita tra lussi e cocaina ma non avevano colpe tali da giustificarne la fucilazione. Marozin in sede processuale disse che Pertini aveva dato l’ordine di ucciderli: “Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: “Fucilali, e non perdere tempo!”).  Delle responsabilità di Pertini nella strage di via Rasella a Roma, ne scrisse William Maglietto in “Pertini si, Pertini no” Settimo Sigillo, 1990.Quando Pertini incrociò nel ‘45 sulle scale dell’Arcivescovado di Milano, Mussolini, reduce da un colloquio col cardinale Schuster. Pertini disse poi di non averlo riconosciuto, “altrimenti lo avrei abbattuto lì, a colpi di rivoltella”. Poi aggiunse: “come un cane tignoso”. Pertini sosteneva la necessità di uccidere Mussolini, non arrestarlo: se si fosse salvato, disse, magari sarebbe stato eletto pure in Parlamento.

Al Quirinale, al di là dell’immagine bonaria del presidente che tifa Nazionale, gioca a carte, va a Vermicino per Alfredino, il bambino caduto nel pozzo, si ricorda il suo carattere permaloso. Ad esempio quando cacciò il suo capo ufficio stampa, Antonio Ghirelli, valoroso giornalista e galantuomo socialista. O quando chiese di cacciare Massimo Fini dalla Rizzoli in seguito a un articolo su di lui che non gli era piaciuto. Così ne parlò lo stesso Fini: “Immediata rabbiosa telefonata al direttore della Domenica del Corriere Pierluigi Magnaschi, un gentleman dell’informazione, il quale ricoperto da una valanga di insulti cerca di barcamenarsi alludendo all’autonomia delle rubriche dei giornalisti, allo spirito un po’ da bastian contrario di Massimo Fini. Il “nostro” San Pertini gli latra minacciosamente: “Non credere di fare il furbo con me, imbecille!, chiamo il tuo padrone Agnelli e vediamo qui chi comanda!” E infatti il giorno dopo mi si presenta il responsabile editoriale della casa editrice Lamberto Sechi…”. Lo stesso Pertini disse a Livio Zanetti in un libro-intervista:”Cercai inutilmente di far licenziare uno strano giornalista italoamericano”.

Quando l’Msi celebrò il suo congresso a Genova nel 1960, fu proprio Pertini ad accendere il fuoco della rivolta sanguinosa dei portuali della Cgil col discorso del “brichettu” (il cerino). E vennero i famigerati “ganci di Genova”, coi quali un governo democratico di centro-destra, a guida Tambroni, con l’appoggio esterno del Msi, fu abbattuto da un’insurrezione violenta nel nome dell’antifascismo.

Proverbiale era la poi sua vanità. Ghirelli riferì uno sferzante giudizio di Saragat: “Sandro è un eroe, soprattutto se c’è la televisione”. E i suoi abiti firmati, le sue scarpe Gucci mentre predicava il socialismo e il pauperismo… I giudizi su Pertini nei diari del suo compagno di partito Pietro Nenni furono perfino più aspri; un ritratto feroce di lui scrisse Marco Ramperti. Francesco Damato ricordò: “Nel 1973 Pertini mi comunicò di avere appena cacciato dal proprio ufficio di presidente della Camera il segretario del suo partito, Francesco De Martino. Che gli era andato a proporre di dimettersi per far posto a Moro, in cambio del laticlavio alla morte del primo senatore a vita”. Poi fu proprio l’onda emotiva dell’assassinio Moro e l’asse Dc-Pci sulla non-trattativa che portò a eleggerlo due mesi dopo al Quirinale.

Da poco Presidente della Repubblica, nel pieno infuriare del terrorismo rosso e con tante vittime, Pertini disse agli operai di Marghera: “Sono stato un brigatista rosso anch’io” per poi negare che le Br fossero rosse, giudicandoli solo “briganti”, così da recidere il filo rosso tra Br e partigiani. Il Presidente di una repubblica flagellata in quegli anni dal terrorismo rosso, si definiva orgoglioso “un brigatista rosso”. Anche questo fu Sandro Pertini, oltre il suo coraggio e la sua coerenza, al di là del fumo della pipa e dell’incenso…

MV, La Verità 

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