Mossad: “Avevamo individuato anche Mengele. Ma priorità era Eichmann”

MOSSAD

Sessanta anni fa, in Argentina, un gruppo di spie israeliane del Mossad mise a segno quella che ancora oggi è considerata una delle operazioni segrete più incredibili della storia: la cattura di Adolf Eichmann, il burocrate dell’olocausto.

Il gerarca nazista, ritenuto uno dei maggiori responsabili dello sterminio degli ebrei, dopo la fine della guerra era riuscito ad evitare l’arresto riparando prima in Italia (dove ottenne un passaporto falso intestato all’altoatesino Riccardo Klement) e poi in Sud America.

Una volta in Argentina, dove trovò lavoro come operaio in uno stabilimento della Mercedes, Eichmann non fece granché per nascondersi. E questo alla lunga gli risultò fatale. Suo figlio si presentava con il suo vero nome, Klaus Eichmann, e spesso si vantava apertamente del passato nazista di suo padre.

Così, quando si fidanzò con la figlia di un ebreo tedesco sopravvissuto a Dachau, Lothar Hermann, la debole copertura saltò definitivamente. Hermann fece arrivare l’informazione a un giudice tedesco, che a sua volta avvertì gli israeliani. Nel marzo del 1960 una spia del Mossad riuscì quindi a scattare una fotografia ad Eichmann a Buenos Aires. E dopo un vertice a Tel Aviv i servizi segreti sentenziarono: è lui. La certezza arrivò da un particolare fisico del nazista: le orecchie appuntite.

L’OPERAZIONE

A quel punto, visti i continui rifiuti dell’Argentina all’estradizione dei criminali nazisti, Israele decise di andare a catturare Eichmann. Undici agenti del Mossad entrarono nel Paese nella seconda settimana di maggio del 1960 e dopo aver riconosciuto Eichmann definitivamente lo aspettarono alla fermata del bus vicino casa sua, a una ventina di chilometri da Buenos Aires, e lo rapirono caricandolo su un’auto.

Per dieci giorni l’ex nazista venne interrogato e spostato in diversi nascondigli, fino alla fuga del gruppo su un volo della El Al (il gerarca venne caricato a bordo sedato e fatto passare per gravemente malato). Dopo un processo durato quasi due anni, Eichmann (nella foto sopra in carcere) venne condannato a morte e impiccato in Israele il 2 giugno del 1962.

I MISTERI DEL BLITZ ARGENTINO

A distanza di sessant’anni sono ancora molti gli aspetti misteriosi dell’operazione. Il governo argentino era completamente all’oscuro di quello che stava accadendo? Perché gli agenti del Mossad non uccisero Eichmann in Argentina? E ancora: è vero che il gerarca nazista rischiò di morire a causa del potente sonnifero che gli iniettò il medico che partecipò all’operazione?

Questa sera su Facebook l’ex ufficiale del Mossad Avner Avraham (nella foto qui sotto con il ciak del film Operation Finale, la pellicola che racconta la cattura di Eichmann), esperto di tutte le più grandi operazioni dei servizi segreti israeliani, interverrà ad un evento live per raccontare i retroscena di quel blitz di sessant’anni fa. Aggiungendo dettagli importanti come quello legato a Josef Mengele, l’angelo della morte di Hitler. «Lo avevamo individuato – spiega Avraham – ma in quel momento la priorità era Eichmann».

Colonnello Avraham, perché ancora oggi è importante parlare della cattura di Adolf Eichmann? Ormai sono passati 60 anni…

«Dobbiamo ricordare l’Olocausto e parlarne alle generazioni future. I sopravvissuti dell’Olocausto rimasti non possono farlo. La cattura di Eichmann è un evento importante legato al famoso processo a Gerusalemme. È un modo diverso e interessante di raccontare la storia dell’Olocausto, attraverso il mondo dello spionaggio».

Ha mai parlato con qualcuno che partecipò alla cattura?

«Ho studiato questo argomento negli ultimi dieci anni e sono diventato un esperto di livello mondiale. Durante la mia ricerca, ho incontrato più di 100 persone coinvolte nell’operazione. E tra questi ci sono il comandante delle operazioni Rafi Eitan (foto sotto), il suo vice Avraham Shalom, l’uomo delle infrastrutture Jacob Meidad e altri. Ma purtroppo sono morti».

Cosa le hanno raccontato di quei giorni in Argentina? Qual è stato il momento più difficile?

«Che hanno vissuto dieci giorni in un ambiente ostile, con la paura costante di essere catturati. Ogni momento è difficile quando stai con un criminale nazista».

Da quante persone era composto il gruppo di agenti del Mossad in Argentina? E chi era la pedina fondamentale?

«Ogni operazione ha un piccolo cerchio circondato da cerchi più grandi di agenti. Al centro dell’operazione erano in undici. La figura importante, il grande cervello dietro a tutto, era il capo del Mossad, Isser Harel».

Ci fu qualcuno del governo argentino che li aiutò?

«No!».

Deve essere stato difficile per quegli agenti sfuggire alla tentazione di ucciderlo. Del resto, conoscevano bene il ruolo che aveva ricoperto Eichmann nell’Olocausto. Qualcuno dei protagonisti le ha mai detto, anni dopo, «sì, avremmo voluto ucciderlo»?

«Gli agenti lavorano per lo Stato e per gli obiettivi che vuole perseguire. L’obiettivo del primo ministro di allora, David Ben-Gurion, era di processare uno dei nazisti più importanti. Naturalmente alcuni di loro hanno pensato di ucciderlo. C’era una donna, di nome Judith Nessihu, che cucinava per lui e che spesso pensava di avvelenarlo».

Come descrissero gli agenti l’uomo Eichmann?

«Un uomo piccolo, grigio, miserabile».

E’ vero che lo stesso team entrato in azione in Argentina avrebbe potuto catturare anche Josef Mengele? Come riuscì l’angelo della morte di Hitler a salvarsi?

«Si è vero. Il Mossad trovò l’indirizzo di Mengele in Argentina, ma la decisione fu di portare prima Eichmann in Israele: del resto, quello era l’obiettivo. Rimasero tre agenti per cercare di prendere Mengele e portarlo di nascosto in Israele via nave.

Ma l’annuncio, forse prematuro, al parlamento israeliano del 23 maggio 1960 (quello sulla riuscita del rapimento di Eichmann) provocò la sua fuga. E il Mossad a quel punto annullò l’operazione Mengele».

C’è oggi un Adolf Eichmann che Israele dovrebbe catturare?

«Israele non ha a che fare con i nazisti oggi. Ma se c’è qualcuno che lavora per danneggiare Israele e i suoi cittadini, non dovrebbe comunque essere portato clandestinamente nel nostro Paese per risolvere il problema».

Un’ultima domanda: quando conosceremo la verità sulle operazioni alle quali ha partecipato lei? Dovremo aspettare 60 anni?

«Mi ha fatto sorridere. Ho terminato il mio lavoro al Mossad con il rango di tenente colonnello. Non ero James Bond, forse qualcuno come “Q” che ha affrontato il mondo con le sue invenzioni.

Nel film “Operation Finale” (la pellicola pluripremiata che ha raccontato appunto l’operazione israeliana, ndr), ho fatto da consulente senior e compaio in alcune scene. Fra 60 anni io non ci sarò, ma probabilmente lascerò dei libri…».

Gianluca Perino per www.ilmessaggero.it

 

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