Il Ventennio degli egocrati: Re Silvio, il Granduca Matteo e il Conte Venesio

VENTENNIO

Ora che si chiude il primo ventennio del secolo, proviamo a tracciare un riassunto politico di quel che è successo in Italia. C’è un filo conduttore che guida la breve storia del potere. Dopo una repubblica corale, dominata dai partiti, l’Italia del nuovo millennio è andata ben oltre il partito personale di cui si parlò negli anni Novanta. È nato un sistema politico curioso: l’egocrazia, ovvero l’esibizione al potere di Uno Solo.

In principio fu Re Silvio Berlusconi, poi fu la volta del Granduca di Toscana, Matteo Renzi, infine si piazzò al potere il Conte Vanesio. E nel mezzo tre ombre proiettate dall’Eurocrazia: Mario Monti, il tecnico funesto, Enrico Letta, il proconsole semi-politico, Paolo Gentiloni, il commissario politico. La storia di questo ventennio è praticamente la storia di un bipolarismo postideologico, postpolitico, trasversale, fra tre egoarchi e tre commissari europei.

Cominciò Re Berluscone I, imperatore apolitico di tutte le destre, che sostituì il centrismo con l’egocentrismo, l’ideologia con l’egologia; e il paese si divise per più di un decennio tra due partiti, uno ad personam e l’altro contra personam. Tutto ruotava intorno al Re Sole, il suo potere veniva rappresentato anche nella sfera privata più intima. Il corpo del Re diventò il corpo del reato. Sparivano le culture politiche, non c’era più storia o tradizione di partito: il Re d’Arcore era il nuovo centro della politica, monopolizzava la scena.

Persino i suoi alleati a uno a uno si sfilarono perché non ce la facevano più a reggere il moccolo al Sovrano Pantocratore. Berlusconi esibiva un Ego senza limiti ma in versione ammiccante, non era propriamente un monarca perché non aveva una dinastia alle spalle, si era autocreato; e non era un dittatore perché amava la libertà, il divertimento e soprattutto amava piacere, non voleva sottomissione ma affetto, dominava a botte di simpatia, voti e compiacimento, non col terrore, le minacce e le punizioni.

Salvo un breve intervallo, l’Egotista dominò la scena per più di un decennio, fu al governo per poco meno di un decennio: non lasciò grandi tracce, non compì grandi opere, non realizzò grandi riforme ma impresse la sua voce, la sua maschera, le sue protesi ovunque, registrando un vertiginoso divario tra simpatie e antipatie, fino all’odio. Berlusconi era un parvenu della politica ma non veniva dal niente: aveva saputo costruire un impero vasto e ramificato, dalla tv allo sport; era un monarca plebiscitario, veniva dal voto, conquistava il consenso da seduttore seriale.

Dopo il regno di Berlusconi, e dopo l’intermezzo tecnico-europeo, arrivò la versione puerile di Silvio, il pischello parlante, l’enfant prodige fiorentino. Senza passare dalle urne iniziò l’era di Matteo Renzi, e tutti pensarono che sarebbe durato più di Berlusconi perché aveva dalla sua due cose in più: la giovane età e la sinistra, cioè il passaporto per governare senza inciampi, veti, massacri mediatico-giudiziari.

Ma ben presto il Granduca si svincolò da ogni schieramento, s’inimicò tutti, si mise al centro dell’universo, rottamò figure e istituzioni, incattivì l’egocentrismo berlusconiano. E la sua era durò poco più di un triennio; si concluse nel rancore, uscì dal Pd troppo tardi, quando era già in caduta e conservò solo un potere di veto e di ricatto che tuttora esercita col rancore dell’egocentrico tenuto in disparte. Gli rimase il potere di far fallire le feste, come Jep Gambardella, protagonista della Grande Bellezza.

Anche lui promise di rivoltare l’Italia, cambiarle il verso, ma i sontuosi annunci si risolsero in poca roba più qualche mancia. La sua piacioneria, il suo voler essere brillante a tutti i costi, gli si ritorse contro, e diventò l’Antipatico per eccellenza, anche per il suo tono dispettoso e saccente.

Dopo il Granduca Renzi il Magnifico, matteologo di se stesso, arrivò la sua controfigura sottotono, il suo uomo-ombra, Gentiloni. Ma ben presto Artemisio Gentiloni si mise in proprio, anzi cambiò datore d’ombra: diventò l’ombra dell’Europa, il ponte tra Pd e l’Eurocrazia, che poi lo richiamò nella casa madre.

Dopo il voto, per un incredibile scherzo del destino, in un rapporto contronatura tra Grillo e Mattarella, arrivò il Conte Vanesio. Dopo un anno passato nel ruolo di figurante tra Di Maio e Salvini e di Zelig che assumeva le forme di ogni suo interlocutore, per un miracolo dell’Egolatra che lo aveva preceduto, il Conte Vanesio si trovò a governare l’Italia con un governo opposto al precedente.

Poi venne la tempesta del covid e quella disgrazia fu la sua fortuna. Lì la sua vanità uscì dal taschino e pervase gli schermi, il potere, ogni cosa. Diventò showman, si congratulò a reti unificate con se stesso, si piaceva un sacco e si corteggiava da solo in diretta tv. Riunì intorno a sé tutti i poteri, inventò migliaia di comparse, chiamate task force o stati generali, per restare a decidere lui solo; s’impossessò non solo dei servizi pubblici, come il tg1, ma anche dei servizi segreti.

Sentendosi ormai un faraone, figurò il suo potere come una piramide, ponendosi alla sommità lui, Giuseppe Cheope, e poi a scendere tutti gli altri subordinati, fino agli schiavi. L’egocentrismo raggiunse il gradino più basso e più spinto: con lui sparì l’ultima parvenza di motivazione politica, l’ultimo straccio di distinzione, che sussistevano in modo residuo con Berlusconi e in dosi minori in Renzi.

Col Conte Vanesio fu raggiunto il punto zero, il narcisismo che si specchia all’infinito, uno specchio dentro l’altro; e lui che parla a vuoto, dice il nulla. Quel che conta è solo restare al potere, con chiunque, a qualunque prezzo, sostenendo qualunque cosa.

Il ventennio politico finisce così, tra la padella egocentrica e la brace eurocentrica. Non bastava il covid.

MV, La Verità

 

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