Firenze, gettoni di nostalgia

Un gesto d’amore da un telefono pubblico: una figlia adottiva a sua madre per scelta. Una giovane Aquila al suo nido

Due gettoni. Cinquanta centesimi.

Compongo il numero e nemmeno so se è giusto.

Questa cabina è davvero stretta.

Uno, due, tre squilli.

Al quarto sto per riagganciare quando una voce allegra risponde dall’altro capo e mi chiama per nome.

Federica!

La f sibilata e la c appena pronunciata sono un pugno allo stomaco e una carezza insieme.

Pensavo che una volta andata via non l’avrei più sentita.

Pensavo che quel legame sarebbe semplicemente sparito, che l’amore che mi legava a lei sarebbe silenziosamente evaporato dal mio sangue.

Così come nel corso del tempo avevo abbandonato tanti vezzi che mi aveva trasmesso: la passeggiata sui lungarni al calar del sole, le domeniche di primavera alle Cascine, i brigidini col vin santo a fine pranzo in trattoria.

Tre anni non sono tanti, ma quando ne hai sedici ti cambiano la vita.

Per tre anni mi sono svegliata col suo odore, coi suoi colori, e oggi che ne son passati cinque da quando l’ho lasciata sento la sua mancanza quasi come fosse il primo giorno che mi sveglio sotto un altro cielo.

Dicono che quando qualcosa finisce è il tempo che cura la ferita, eppure questa separazione brucia ancora come al principio.

Penso spesso a quello che mi ha detto un caro amico una volta – che il disamore altro non è che il frutto della disabitudine – e mi piacerebbe tanto spiegargli che non è così facile.

Lui che la vede tutti i giorni, che la respira tutti i giorni, non può capire.

Prego inserire un’altra moneta per continuare la telefonata.

Riemergo dai miei pensieri con un’imprecazione – sempre un uso da lei ereditato – e mi domando come mi sia venuto in mente di chiamare da una cabina telefonica.

Dannazione!, io e la mia maledetta nostalgia.

Mi frugo le tasche e altri spicci non li trovo.

Nel frattempo, Firenze aspetta sull’altro capo.

Non penso il mio silenzio le dia noia, ormai mi conosce. Ma una come lei da fare ne ha, con tutti quei figli da curare – lei, madre amorevole che non discrimina tra i pochi fortunati nati dal suo ventre assolato e quelli che l’hanno scelta come nido.

Me la immagino che riaggancia la cornetta sorridendo, ora che finalmente sa che ha davvero vinto lei.

La linea s’interrompe. Non so se è segno o casualità, ma forse è tempo di tornare, di rivedersi di persona.

Il cuore, invece, è sempre rimasto lì. Tra le mani di lei.

Che ll′è la mi’ città.

 

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