E ai grillini rimase solo un Fico secco

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Dell’epopea grillina è rimasto nelle istituzioni un frutto fuori stagione, il Fico. Sta lì appeso e solitario, sull’albero di Monte Citorio, aggrappato con tutte le sue forze al ramo; fuori corso, fuori luogo, come un reperto peloso di un’era geologica precedente. La sua unica speranza è che tardi il raccolto, ovvero che non si vada a votare. Draghi, in fondo, è stata una disgrazia per i grillini al governo, meno che per lui, perché è una polizza sulla sua durata alla presidenza della Camera.

Fico è una figura coerente, almeno al suo cognome e al suo curriculum, in cui il pensiero e azione coincidono perfettamente, nell’inattività di ambedue. Lo ricorderete il giorno della prima comunione quando andò a piedi a presiedere il Parlamento per far capire che lui è uno della gente. Costò un sacco mandarlo per le strade con la scorta e la sorveglianza, molto più che un viaggio in un’auto blu. Poi passò al tram, giusto il tempo di farsi una foto da mandare in rete. Andate a vedere ora come viaggia il Fico presidenziale. I Palazzi sono una droga, ci si abitua presto, soprattutto se non hai robusti anticorpi culturali e non hai altro mestiere a cui tornare.

Lo vedemmo con le mani in tasca mentre suonavano l’Inno di Mameli, ora lo avrete visto nel cortile del Quirinale come un Fico ammaestrato al passo militare per andare da Mattarella a compiere quella sua missione inutile del mandato esplorativo, coronato da un folgorante insuccesso. Alla sua impresa mancò la fortuna non il valore, assente già da prima.

Ma del napoletano egizio resterà soprattutto la sua campagna d’Egitto, la guerra dichiarata al Cairo nel nome di Regeni. Finora il suo unico, straordinario successo è stato far crollare i rapporti import-export con l’Egitto a vantaggio della Francia che ne ha subito approfittato. E’ quella la sua missione politica e umanitaria più significativa nell’arco di tre anni, più qualche gne-gne di banalità finto-umanitarie e qualche discorso-fotocopia come da protocollo.

Fico è un prodotto tipico della stagione grillina, dimostra che siamo arrivati alla frutta, e non per modo di dire. Uno che come titolo di studio si è laureato in canzone neomelodica napoletana, e non nel senso che almeno cantava e si guadagnava da vivere per strada o tra i tavoli del bar passando poi col piattino; ma, peggio, studiava i cantanti napoletani, studiava la fenomenologia di Mario Merola e la teoria trascendentale di Roberto Murolo. Studioso non di Machiavelli o Beccaria ma di Gigi d’Alessio e Nino d’Angelo. Un genio dal sapere enciclopedico. Fico della Mirandola.

Uno che fino all’età di quarant’anni inoltrati, cioè fino a che non vinse alla ruota della fortuna coi 5 Stelle, non aveva arte né parte ma si arrangiava tra hotel, lavoricchi, vendeva tessuti marocchini e roba varia. Uno che ha rappresentato per indole, capacità e curriculum, l’ala più grillina dei grillini; esponente dell’Ideologia apocalittico-pressapochista di Grillology, con scappellamento a sinistra. Però, uè, Fico ha rinunciato all’indennità aggiuntiva, dunque è un eroe e martire della Causa.

Ma Fico fu osannato subito dai media perché rappresentava l’ala sinistra del Movimento, il frutto proibito dell’intesa col Pd, che poi maturò e dette i suoi frutti. Per certi versi Fico è un frutto sessantottino maturato con mezzo secolo di ritardo; rimastica il vecchio egualitarismo e l’antico pauperismo, è ovviamente nemico, anche per fatto personale, della meritocrazia; è totalmente appiattito sul politically correct anche sui temi bioetici e ha subito sbandierato, insediandosi a Montecitorio, la sua continuità antifascista con la Boldrina. Fico rappresenta non solo il movimentismo extraparlamentare ed extraterrestre dei Cinque Stelle in versione radical-pop, ma la sinistra d’asporto, di strada, di rete e di utopia, senza il realismo politico della sinistra più scafata, da Bersani a D’Alema e Minniti. A questo punto dateci Marco Rizzo, comunista senza peli e senza indugi. Peggio della sinistra infatti c’è solo la sinistra in format grillino.

Per il movimento di cui Fico è rimasto oggi l’esponente di punta, l’ignoranza è una virtù, come la verginità ai tempi dell’educazione cattolica. E così l’assenza di curriculum, di storia. È la convinzione egualitaria e sessantottina che l’ignoranza sia sinonimo di purezza, di illibata virtù e astinenza dal potere, di vicinanza al popolo versione auditel, anzi ignorantitel. Niente studio, tutto dilettantismo. La competenza è solo la somma in rete di tante ignoranze. Come il voto politico nel ’68.

Uscendo dalle consultazioni il suo amico geniale, Crimi, ha parlato di “intelligenza collettiva”; in effetti sarebbe stato incauto riferirsi a quella personale. Tutto è immediato, diretto, collettivo, la rete è l’unica sovranità riconosciuta; ma va prima ammaestrata, controllata e ridotta come i cani di Pavlov a rispondere solo coi riflessi condizionati a quesiti prefabbricati che contengano già la risposta.

A vedere il Fico e soprattutto a sentirlo parlare ti viene di chiamarlo don Felice Sciosciammocca, con la sua parlata da Ninnillo di mammà e la sua proverbiale mosceria da posapiano. Un personaggio tipico della commedia napoletana, beneficiario del caffè sospeso. Con Giggino Di Maio costituisce il due di coppe del mazzo napoletano dei 5Stelle; ma perlomeno Di Maio è sveglio e mutante, conosce l’arte di barcamenarsi.

La presidenza della Camera spesso peggiora le persone, lo sappiamo dai suoi predecessori. Con Fico non c’era pericolo: l’impresa di peggiorarlo era praticamente impossibile. Lui era già in natura il massimo esponente del Nulla Grillino di Sinistra. Di più non si poteva.

MV, Panorama n.7 (2021)

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