Dante padre nostro. Lui esule noi reclusi

DANTE

Dante – Ieri è stata la prima giornata mondiale dedicata a Dante Alighieri e cade nel momento più buio dell’Italia nostra. Un terribile contagio di cui abbiamo il triste primato mondiale di vittime, un paese agli arresti domiciliari e un collasso economico e sociale che non ha precedenti dalla Seconda guerra mondiale. Il tutto, se vogliamo, in un momento davvero “dantesco” tra la mancanza di un governo all’altezza della situazione e l’assenza di una vera guida spirituale e pastorale: un po’ come al tempo di Dante, col Papato finito ad Avignone e l’Italia “nave senza nocchier in gran tempesta”. Abbiamo dunque cominciato a celebrare il Poeta partendo dall’inferno dantesco, con l’ardente speranza di riveder le stelle. Lui esule, noi reclusi.

L’hanno chiamato vezzosamente Dantedì ma l’idea di dedicare una giornata al Sommo Poeta ci parve subito una sacrosanta iniziativa. E se cade nel momento peggiore può anche dirsi il contrario: mai come oggi potremo apprezzare il richiamo dantesco. Abbiamo il tempo e forse la condizione spirituale più adatta per tornare ai suoi versi e alla sua visione; per leggerlo, declamarlo e gustarlo con una sensibilità che non avevamo al tempo della scuola e della somministrazione coatta delle terzine dantesche. Però una giornata dantesca non può essere solo un vago omaggio al Poeta e alla bellezza dei suoi versi. Perché se così fosse si potrebbe immaginare pure un Leopar-dì, anche se non sarebbe un dì di festa, considerando la visione tragica del poeta. Se si dedica una giornata a Dante è per due motivi essenziali in cui il valore poetico-letterario della sua opera ne è il glorioso coronamento.

La prima ragione è spirituale, perché quel poeta ci ha condotto con i suoi versi e le sue prose in una visione spirituale della vita e del mondo, fondata sull’idea di salvezza. Un pensiero profetico, escatologico e teologico ma non clericale anima Dante e percorre la sua opera. E l’itinerario delle mente dantesca trascorre dall’amore alla sapienza, dalla lingua alla rigenerazione civile, fino al cammino iniziatico dell’anima verso il cielo.

La seconda ragione è invece civile ed è collegata alla nostra identità italiana: Dante è il Padre dell’Italia, colui che ha scoperto la necessità di riunire le sparse e riottose membra dell’Italia e di far risorgere la civiltà italiana, figlia della romanità e della cristianità; ossia figlia dell’Imperium e del diritto romano e figlia prediletta della chiesa cattolica apostolica romana. In quanto latina, romana e cristiana, la civiltà italiana era concepita da Dante come universale: l’amor patrio secondo Dante non è chiusura tribale nel gretto nazionalismo ma è l’idea di una civiltà che è faro per il mondo. Quel che poi Gioberti tradusse in primato morale e civile d’Italia; espressione che oggi sembra suscitare più commenti ironici e dissacranti che altro. Quello dantesco è l’amor patrio di un esule, non di un migrante, di un uomo costretto a partire, a lasciare la casa, il suolo natio, a vivere lontano dalla sua Firenze.

Dante è il padre della nostra lingua ma anche il più vibrante apostolo e profeta dell’Italia che verrà. Dopo di lui verranno Petrarca e Machiavelli, e poi Vico ed Alfieri e col tempo tutti i grandi sognatori d’Italia, fino agli scrittori, i poeti e i pensatori romantici e risorgimentali. Ma lui fu il primo, il capostipite, e nel momento più fosco, in cui non s’intravedeva alcun processo politico unitario. Non mi stancherò di ripetere che non fu Garibaldi, Vittorio Emanuele II, ma fu Dante il vero fondatore d’Italia. Prima di essere uno Stato l’Italia fu una nazione, e prima di essere una nazione fu una lingua e una civiltà. Le altre nazioni furono nazioni politiche, la nostra fu nazione culturale: venne prima la lingua poi gli ordinamenti statuali, venne prima la visione dantesca e l’invocazione dell’Italia e solo dopo gli eserciti, le imprese belliche e il processo unitario, con le sue luci e le sue ombre. L’identità italiana precede di svariati secoli il suo stato unitario. I poeti fondarono l’Italia e il suo primo Re fu Dante. Che ne colse l’unità come la diversità, che per lui erano più nette tra l’Italia destra e l’Italia sinistra, ovvero il versante tirrenico e quello adriatico, anziché la divisione tra nord e sud.

E nazione culturale restò l’Italia nel tempo, anche quando realizzò la sua unificazione, fino a essere oggi patrimonio artistico e letterario dell’umanità, col suo primato universale dei beni, delle antichità e delle bellezze, con i suoi geni nell’arte e nella letteratura ma anche nella scienza e nelle scoperte: la modernità è figlia di Leonardo e Galilei, di Marco Polo, Colombo e Vespucci, di Volta e Galvani, di Meucci, di Marconi e di Fermi. L’ingegno e la visione da noi hanno sempre preceduto la spada e lo scettro.

Per cogliere tutto Dante non basta il pur immenso giacimento della Divina Commedia, bisogna inoltrarsi nella selva delle sue opere in prosa: dalla Vita Nova dedicata all’Amore al Convivio sulle tracce della Sapienza, dal De Vulgari Eloquentia sulla lingua e la geografia poetica al de Monarchia, sulla visione politica dell’Impero romano proiettato nei secoli a venire. E poi le sue Lettere dall’esilio, il suo vano tentativo epistolare di suscitare nei principi e nel clero un risveglio spirituale e politico. Lo dico anche per esperienza personale, avendo dedicato questi giorni di reclusione domestica alla lettura e rilettura dell’altro Dante, col proposito di lavorarci in vista del prossimo settecentenario della sua morte. È bello perdersi in sua compagnia nelle sue visioni: Vorrei che tu, Lui ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel, ch’ad ogni mare andasse al voler vostro e mio…

MV, La Verità

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