Controritratto di Aldo Moro il bizantino

moro

Il 9 maggio del 1978 fu ritrovato il corpo di Aldo Moro nel bagagliaio della Renault. In quel giorno tremendo anche l’Italia antidemocristiana che aveva quasi gioito per il rapimento di Moro, ammutolì sgomenta davanti a quel corpo senza vita. Non dirò dei misteri di via Fani e delle Brigate rosse né della dietrologia interna e internazionale sul suo assassinio, degna dei teoremi morotei. Moro fu la sfinge duttile e contorta della Dc, l’incarnazione di uno stile labirintico, una razza politica e una lingua assiro-politichese.

Il suo volto pallido e assorto, le sue labbra improntate a una smorfia di lieve e rattenuto disgusto, i suoi occhi perduti nei cieli levantini della Magna Grecia, la sua mano molle, la sua andatura lenta e la sua mitica frezza bianca che con gli anni si era allargata.

Ah, tu con quella frezza bianca, che stai combinando? Gli avrebbe detto una volta Padre Pio rimproverandogli l’apertura a sinistra, come già aveva fatto in una lettera il cardinale Siri. Su quelle parole del frate burbero e santo, nel collegio elettorale di Moro, la circoscrizione Bari-Foggia, puntò la sua campagna elettorale del’76, il sacerdote don Olindo Del Donno, prete dannunziano eletto deputato nel Msi, sospeso a divinis.

Il leader più autorevole della Dc

Moro firmò una stagione politica e forse antropologica del nostro Paese. Fu il leader più autorevole della Dc, dopo la disfatta di Fanfani al referendum sul divorzio. Di indole moderata e conservatrice, di provenienza cattolico-fascista, Moro promosse la stagione degli “equilibri più avanzati” e delle “convergenze parallele”, come diceva nel suo linguaggio degno del barocco leccese, ricco di ossimori levantini e paradossi babilonesi che sfidavano la logica e la geometria. Fu l’epoca bizantina della Dc. Per certi versi Moro fu la versione politica di Paolo VI.

Stratega più che statista, intellettuale di elevata cultura giuridico-filosofica, Moro fu il principe della Mediazione. I moderati non lo amavano per i cedimenti a sinistra, per i “patti conciliari”, come in un primo tempo fu chiamato il compromesso storico; ma anche per la sua politica estera ambigua, con le sue concessioni a Tito e a Gheddafi a danno degli italiani in Libia e nelle terre d’Istria e Dalmazia. Viceversa i progressisti lo stimavano ma ne diffidavano perché vedevano in lui il grande ammorbidente della sinistra. Un professore di latino e greco delle sue parti, ricordava che moros nelle zone griche del Salento vuol dire stolto.

Il memorabile discorso sull’affare Lockheed

A Moro rimproverarono di aver corrotto il linguaggio politico, come gli rinfacciarono Pasolini e Sciascia, usando un lessico involuto ed esoterico, paludato e impenetrabile, una specie di latinorum che escludeva la comprensione delle masse; di aver corrotto la sinistra socialista e poi comunista, consociandola al potere, così neutralizzando la sua carica civile e vitale; e di aver giustificato la corruzione politica attraverso il memorabile discorso sull’affare Lockheed circa i costi inevitabili della politica, i finanziamenti illeciti e la non processabilità della Dc.

Il potere democristiano subì un triplice processo: prima dagli intellettuali, a partire dal memorabile attacco di Pasolini alla Dc; poi dai brigatisti rossi, e infine dai magistrati. In principio fu il verbo, poi venne il mitra, infine Mani pulite.

Si dimenticava però che, a fianco del compromesso storico tra Dc e Pci, stava marciando dalla metà degli anni Settanta un altro compromesso tra comunisti e capitalisti, che culminò nel Patto dei produttori (auspici Amendola, Agnelli e La Malfa) e che dette vita a quella saldatura tra sinistra e potere economico perdurata negli anni (che trovò ne La repubblica uno dei suoi capisaldi politico-editoriali).

Pci

E se Moro fu il teorico del costo illecito della politica, la corruzione politica era pratica diffusa ormai da anni, in casa Dc e non solo. E la straordinaria congiuntura internazionale, la pressione combinata di Stati Uniti e Urss sul nostro paese, costringeva alle acrobazie per barcamenarsi; quelle in cui Moro eccelleva.

I suoi estimatori dicevano che la sua strategia del compromesso storico, quella che lui chiamava la terza fase, era propedeutica a una democrazia bipolare dell’alternanza: prima legittimiamo il Pci, consociandolo gradualmente al governo, così gettiamo le basi per una democrazia compiuta fondata sull’alternanza.

In realtà Moro si era posto un altro problema: come conservare il potere alla Dc davanti all’onda lunga della sinistra, le turbolenze della piazza, le lotte sindacali, il terrorismo e l’incalzare di una società laica e libertaria, emersa col divorzio. L’unico modo per sopravvivere era venire a patti con l’avversario, cercando di sterilizzare le spinte antagoniste e rivoluzionarie, ma anche di imbrigliare le tensioni sociali e frenare le tentazioni permissive; considerando il Pci grande forza popolare e morale, alleata in questa battaglia contro il laicismo e l’individualismo della società radicale. Per altri versi era la strategia del pugile che quando rischia di soccombere sotto i colpi dell’avversario lo cinge in un abbraccio.

Moro non lasciò eredi

Andreotti proseguì la strategia consociativa ma al di fuori del disegno moroteo, pronto successivamente a varare un’alleanza di altro segno con il cosiddetto CAF, con CraxiDe Mita, anche lui come Moro, intellettuale della Magna Grecia dal linguaggio contorno, proseguì su altre vie il disegno politico bipolare, ma contrapposta a Craxi; e i morotei come il suo fidato Zaccagnini o il successore Martinazzoli, non avevano la sua statura politica.

Così Moro si trovò nella solitudine mortale di un portabagagli, rigettato come un corpo estraneo, punito per la pretesa consociativa di narcotizzare i conflitti. L’onda di sangue del ‘900, in cui erano stati uccisi Umberto di Savoia e l’Italia umbertina, Mussolini e l’Italia fascista, travolse anche Moro e l’Italia morotea.

 

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