In difesa del dolore che non ha colore
C’è un elemento che in tutta questa polemica ideologica è stato messo troppo facilmente da parte: il dolore. Il dolore reale, concreto, devastante, di chi ha perso una figlia, una sorella, un’amica.
Ecco perché quanto ha scritto Antonella Bundu va a letto anche sotto un’altra luce. Chi vuole rappresentare i cittadini, deve essere responsabile nelle proprie dichiarazioni.
Io con danno chi esagera contro di lei, non accetto che venga fatta bersaglio di insulti razzisti. Ma deve stare attenta a pronunciare frasi che prestano il fianco a razzisti di altro genere.
Dolore che non si misura con le categorie dell’antropologia, né con quelle dell’attivismo
Un dolore che non è né bianco né nero, ma umano. Che non chiede cittadinanza politica, ma ascolto, rispetto e giustizia.
Quando la madre di Pamela Mastropietro prende la parola — non per speculare, non per cavalcare il rancore, ma per ricordare la brutalità assoluta di ciò che sua figlia ha subito — ha il diritto di essere ascoltata senza dover prima dimostrare il pedigree ideologico.
E allora bisogna porsi alcune domande scomode, ma necessarie:
Le vittime come Pamela, come Desirée Mariottini, come Irina, la giovane uccisa a coltellate su un treno da un disadattato che aveva già dato segnali preoccupanti, sono meno vittime perché bianche?
I loro omicidi sono meno gravi perché commessi da individui appartenenti a una minoranza etnica?
Il dolore di chi le amava è meno legittimo perché non rientra nel discorso dominante sull’antirazzismo?
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È forse diventato una colpa, oggi, essere bianchi?
Se siamo arrivati al punto in cui alcune tragedie meritano meno attenzione pubblica solo perché mettono in crisi una certa narrazione, allora non stiamo lottando contro il razzismo, ma lo stiamo solo ribaltando. E ciò non è progresso, ma involuzione morale.
L’eguaglianza vera parte dalla persona, non dall’etnia
L’eguaglianza tra gli esseri umani non è una concessione culturale: è un principio fondativo del pensiero moderno, della nostra Costituzione, della civiltà giuridica. Ogni essere umano — uomo o donna, bianco o nero, italiano o straniero — è portatore di pari dignità e ha diritto allo stesso livello di protezione, giustizia e rispetto.
Questo vale per le vittime e per i colpevoli. Per chi subisce e per chi agisce. Le responsabilità devono essere personali, non collettive. I crimini devono essere giudicati per ciò che sono, non per chi li commette. Le vite spezzate vanno onorate in quanto tali, non in base al colore della pelle o al passaporto
Sottolineare solo certe vittime e ignorarne altre, in nome dell’ideologia, significa strumentalizzare la sofferenza e togliere dignità a chi non ha più voce. Ed è una forma di discriminazione a sua volta.
Contro ogni razzismo, davvero
Il razzismo non si combatte invertendo i ruoli tra colpevoli e innocenti in base all’etnia. Lo si combatte affermando, ogni giorno, che l’unico criterio di giudizio deve essere l’umanità, il comportamento, la responsabilità individuale. Non il sangue. Non il colore. Non la bandiera. Non la cultura d’origine.
Chi pretende di costruire una società più giusta partendo dalla colpevolizzazione di un’intera “razza” — quella bianca oggi, come qualsiasi altra ieri — non sta proponendo una liberazione, ma una nuova forma di oppressione.
Se davvero vogliamo andare oltre il razzismo, dobbiamo guardare le persone come persone. E ricordarci, ogni volta che parliamo di “privilegi”, di “sistemi”, di “smantellamenti”, che dietro queste parole ci sono storie vere. Corpi veri. Morti vere. Come quella di Pamela.
E il loro dolore non ha etnia.
Ha solo un nome: umano.
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