Votare o non votare, questo è il dilemma
Mentre gli Italiani sono alle prese con i rincari delle bollette, delinquenza in aumento, calo delle nascite, vite che si allungano mandando in crisi intere economie familiari per la gestione di malattie croniche con un Sistema sanitario sempre più in affanno; mentre si attendono le ultime partite del Campionato di calcio per decretare se lo scudetto andrà a Napoli o a Milano e ci si scopre tutti vaticanisti a fare il tifo per l’uno o per l’altro dei Cardinali che entreranno in Conclave, i giorni passano e ci attanaglia il dilemma: votare, o non votare ai prossimi Referendum del 8 e 9 giugno?
Ebbene sì, tra un mese o poco più gli Italiani saranno chiamati a pronunciarsi sui 5 quesiti referendari voluti da CGIL in materia di lavoro e di cittadinanza, referendum abrogativi che riportano nelle mani del cittadino la decisione se abrogare, o meno, leggi dello Stato vigenti. Ammesso e non concesso che si raggiunga il famigerato “quorum” perché tutti sappiamo che per la validità dell’esito referendario deve votare almeno il 50% degli aventi diritto.
Dati sull’astensionismo alla mano, si sa che oggi gli Italiani sono poco propensi ad entrare in cabina elettorale, anche per scegliere Sindaci e Presidenti di Regione (i dati sull’astensione delle ultime elezioni amministrative sono a dir poco sconfortanti e preoccupanti); c’è da scommettere che anche la prossima tornata referendaria si giocherà sulla partecipazione, che negli anni è andata inesorabilmente a decrescere, visto che tutti i referendum abrogativi dal 1990 al 2022 non raggiunsero neanche il quorum, fatta eccezione per il referendum sull’acqua del 2011 (dove la partecipazione si attestò su un onorevole 54.82%)
Sono lontani i tempi in cui andava a votare l’87.7% degli Italiani aventi diritto: correva l’anno 1974 e Fanfani, per la DC e Berlinguer, per il PCI, muovevano folle e coscienze per il SI o il NO all’abrogazione della Legge 898 del 1970 che introdusse in Italia il divorzio: una bella pagina di democrazia e partecipazione civile consegnata alla storia di questo Paese, quel referendum dove prevalsero i NO all’abrogazione e gli Italiani scelsero con chiarezza ed a gran voce di mantenere in piedi legge e diritto.
Oggi non ci sono né Fanfani né Berlinguer, e c’è Landini e la CGIL a guidare il fronte per i 5 SI ai referendum su lavoro e cittadinanza in programma tra un mese, con l’imperativo categorico di andare a votare
La politica naviga a vista, tra ideologia, silenzi e perplessità, e non sfugge all’elettore che una parte di quelle norme che la CGIL chiede di abrogare sono norme introdotte in questo Paese dalle forze progressiste, Partito Democratico in testa, quando i Riformisti erano al governo: vogliamo ricordare che il D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 ed il D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 che la CGIL chiede di cancellare altro non è se non il “Jobs Act” adottato dal Governo guidato da Matteo Renzi che tutto il PD sostenne?
Andate a leggere oggi il blog Deputati PD che dava conto che il Jobs Acts nacque proprio “dalla convinzione che fosse necessario riformare il mercato del lavoro ed estendere le tutele ai tanto lavoratori che ne erano esclusi”, con imponenti stanziamenti a copertura delle maggiori tutele, ed al grido dello slogan “Combattere la precarietà, estendere le tutele, far ripartire l’occupazione” si chiariva che il Jobs ACT “Fa un buon lavoro” (11 Marzo 2015)
Eh già, perchè il Jobs Act riguardava poco i lavoratori con contratti regolari, ma i precari, i disoccupati, le nuove generazioni, cioè quella parte del mondo del lavoro forse poco “sindacalizzata” che oggi l’articolo 18 lo vede con il cannocchiale (Pietro Ichino).
Sono passati 10 anni
Oggi la decisa virata a sinistra del Partito Democratico e l’abbraccio con CGIL si concretizza nell’appello al voto in blocco per i cinque SI lanciato dalla Segretaria Schlein dai microfoni della puntata di Piazza Pulita del 1 Maggio: la Segretaria senza distinguo chiede il colpo di spugna sulla stagione riformista del PD, chiedendo di cancellare dall’ordinamento le norme del Jobs Act per “riscattare la dignità del lavoro”.
Dalla Toscana, gli fanno eco non soltanto il Segretario Regionale del PD Fossi che scrive: “Dopo decenni di subalternità a un pensiero unico, è il momento di costruire una visione diversa del mondo: più giusta, più equa, più solidale. Questi referendum servono proprio a questo: a difendere e rilanciare i diritti, a contrastare la precarietà, a garantire dignità e tutele a chi lavora e vive in questo Paese
Sono anche una risposta politica chiara alle destre, che alimentano insicurezza e paura per poi proporre soluzioni sbagliate che peggiorano la vita delle persone”, ma anche il Presidente Giani che chiede anche lui i cinque SI dopo avere ringraziato “Maurizio Landini e la CGIL per l’impegno coraggioso e coerente in difesa dei diritti. Siamo al vostro fianco”.
D’altra parte, un sobrio Matteo Renzi dalle colonne del Corriere della Sera del 4 maggio prova a riportare la discussione sul merito e non può esimersi dal chiarire che i referendum sul lavoro altro non sono se non “il simbolo di una guerra ideologica”
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quel lontano 2003 quando fu proprio l’allora fronte progressista (guidato dai DS Democratici di Sinistra, insieme a Socialisti Democratici Italiani, Democrazia e Libertà – La Margherita, Popolari-UDEUR) ad affossare il referendum sul lavoro promosso da Rifondazione Comunista per l’abrogazione delle norme che stabilivano limiti numerici e ed esenzioni per l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Altri tempi, altra la politica, allora: Piero Fassino Segretario dei DS guidò il fronte dell’astensione ai Referendum del 16 e 16 Giugno 2003 al grido dello slogan “Astenersi è un diritto, parola dei DS”, e l’ex leader della Cgil Cofferati si espresse criticamente su quel referendum, e con lui anche Rosy Bindi (Margherita) disse: “la penso come Cofferati: per me il referendum sull´articolo 18 è sbagliato”
Fu così che in quel lontano 2003 che vide per la prima volta al voto anche gli Italiani all’estero, si recò alle urne soltanto il 25% di aventi diritto, ed il quorum non si raggiunse con buona pace di chi voleva estendere a tutti i lavoratori il diritto alla reintegra nel posto di lavoro.
Per restare in tema di referendum abrogativi in materia di lavoro, anche quello del 21 Maggio 2000 voluto da Radicali e PRI per l’abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e delle norme sulla reintegrazione del posto di lavoro, non ebbe miglior sorte, anche se andò a votare il 32.5% degli aventi diritto.
Quale sarà la sorte dei 5 Referendum voluti da Landini?
E quale sarà infine l’effetto dell’appello della Segretaria Schlein al voto in blocco sul popolo democratico che sostenne con i suoi Parlamentari la riforma del lavoro che oggi si vorrebbe cancellare epurando con una croce su una scheda elettorale una storia riformista che qualcuno, ancora, rivendica, lo verificheremo tra poche settimane.
Il pensiero unico…chissà.
Per il momento, facciamo appello alla Politica di riportare al Parlamento la centralità che merita, poiché se è vero che i referendum sono uno strumento straordinario per (ri) avvicinare i cittadini alla politica, non vorremmo mai che diventassero una scorciatoia per abrogare le leggi vigenti senza un vero dibattito parlamentare.
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