Un Paese divorato dal rancore

Qualche giorno ha spiegato in un articolo i sette motivi per cui non festeggiava il 25 aprile. Ora arriva il Primo Maggio, la Festa del Lavoro, un’altra celebrazione. Ma Primo Maggio e 25 aprile, anziché unire, come appunto è lo spirito di una festa, troppe volte si sono trasformate in eventi divisivi. Ha ancora senso celebrarle oggi? “Sono due feste diverse – risponde Marcello Veneziani, giornalista e saggista -, anche se entrambe accomunate da un tripudio di bandiere rosse. C’è un filo conduttore storico, ma le motivazioni credo siano diverse. Il 25 aprile segna non soltanto la fine del fascismo, ma la spaccatura del nostro Paese. In quanto tale, è una data ancora drammatica”.

E il Primo Maggio?

Pur avendo i requisiti di una festa che ricorda la lotta di classe, i lavoratori contro il padronato, ha tuttavia una vocazione più unitaria, perché in fondo riguarda tutto il mondo del lavoro, senza distinzioni. Messe insieme, allineate, 25 aprile e Primo Maggio alla fine danno un messaggio, o perlomeno lo davano.

Quale?

Fino a qualche anno fa era l’egemonia di un partito che – ora come Pci, ora come Cgil – attraverso queste due feste mostrava di essere in qualche modo il celebratore primo, la realtà predominante.

E oggi?

Con il passare del tempo è diventata una celebrazione dell’antifascismo anche quando ormai i contorni della lotta tra fascismo e antifascismo erano lontani nel tempo. Paradossalmente si è data maggiore enfasi a questa festa man mano che si allontanava nel tempo il ricordo e quindi era un po’ innaturale rispetto alla realtà della storia del nostro Paese.

Oggi viviamo tempi in cui il lavoro è sotto attacco: è difficile trovarlo, spesso è esercitato in forme precarie, la robotizzazione lo insidia sempre più da vicino. Ha ancora senso il rito della Festa del Lavoro?

Ha senso finché abbiamo una Costituzione il cui primo articolo recita che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Poi, se uno va a vedere, in realtà una metà degli italiani, tra pensionati e disoccupati, non lavora più o non lavora ancora. Quindi non è proprio rappresentativa di tutto il Paese. Resta comunque il fatto che il Primo Maggio è una festa che celebra la centralità del lavoro, quindi mantiene un valore etico e sociale importante.

Oggi l’Italia è attraversata da tante faglie: non solo, appunto, tra chi un lavoro ce l’ha e chi no, ma anche tra Nord e Sud, tra giovani e anziani, tra redditi benestanti e redditi medio-bassi. Come si possono ricomporre queste fratture? Altrimenti, a quali rischi va incontro il nostro Paese?

Dubito che si possano ricucire, tutt’al più sarà possibile attenuarle. Anche perché si tratta di universi divergenti, se non conflittuali. È difficile immaginare una sintesi che possa raccogliere tutti. Sono troppi i fattori di fuga: la denatalità, la decrescita demografica, il fatto che i ceti più dinamici del nostro Paese, cioè i giovani laureati, emigrano all’estero. Senza dimenticare che quando i valori condivisi non esistono più – o come valori o perché non condivisi -, il quadro diventa ancor più complesso, rendendo irrimediabili queste fratture.

A proposito di conflittualità, secondo il Censis l’Italia è un Paese in preda al rancore e alla cattiveria. È davvero questo l’identikit degli italiani? E come si spiega l’affermarsi del rancore in un Paese storicamente votato alla solidarietà?

Il rancore è sicuramente una delle chiavi di lettura del nostro tempo, è il risentimento a livello personale di quello che un tempo era la lotta di classe, l’invidia di classe. Oggi questa lotta, questa invidia si sono polverizzate, sono diventate una lotta e un’invidia pulviscolari, molecolari, dei singoli rispetto al contesto. Il rancore ha un filo di continuità con il passato. Un tempo si chiamava odio verso chi sta meglio, conflitto tra proletariato e borghesia; oggi diventa rancore di tutti contro tutti. E ci sono strumenti, come i social, che danno la rappresentazione di questo conflitto generalizzato. Ovviamente l’Italia non è solo questo rancore, però è una delle letture preminenti.

La polverizzazione del rancore è legata al fatto che da diversi anni è in atto un attacco, una delegittimazione dei corpi intermedi della società?

Credo che la principale ragione del rancore sia dovuta a un conflitto interpersonale e a un conflitto tra oligarchie privilegiate, o presunte tali, e popoli. Più che un attacco ai corpi intermedi è l’affermarsi di un individualismo di massa, di una solitudine di massa che porta al rancore verso il resto.

I valori condivisi non sono più tali, ma su quali punti si può ripartire per ritrovare un’unità, un comune sentire?

Si dovrebbe ritentare di ricostruire il tessuto comunitario del Paese e ritrovare quei punti di riferimento che hanno fatto dell’Italia un Paese che, pur con tutte le sue contraddizioni, è cresciuto ed è riuscito a ottenere risultati straordinari. Se continuiamo a vergognarci della nostra civiltà, a rigettare l’architrave della nostra società che è la famiglia, se riteniamo che il senso nazionale e l’amor patrio debbano essere visti solo in negativo come xenofobia e odio per gli stranieri, se continuiamo a disgregare tutto quello che può costituire il tessuto comune, è ovvio che poi non ci resta che il rancore.

Siamo in piena stagione sovranista e lei, giusto un anno fa, auspicava provocatoriamente che venisse affidata la guida del governo al M5s, per metterlo alla prova. Un anno dopo che bilancio si sente di fare del governo giallo-verde?

È un governo inclassificabile, perché Lega e M5s sono due forze realmente e profondamente diverse. Quanto ai Cinquestelle, posso dire che si è confermata la loro totale incapacità e inadeguatezza a governare. Certo, non sono nella condizione migliore, visto che coabitano con una forza che ha un altro sentire, però bisogna ammettere che si è rivelato tutto il loro dilettantismo. Il bilancio per il M5s è ampiamente negativo.

Il governo giallo-verde si è sempre presentato come il governo del cambiamento, della discontinuità. Secondo lei, sta centrando l’obiettivo?

È presto per dirlo, ma i segnali iniziali non sono certo incoraggianti, anche perché si perseguono progetti troppo diversi per poter convivere tra loro.

Intervista a Marcello Veneziani di Marco Biscella per Il Sussidiario.net 

 

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