Quel Principe così vicino così remoto

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Prefazione al Principe di Machiavelli uscito ora in edizione numerata per le edizioni Heimat.

Non è un libro semplice, Il Principe di Machiavelli, la sua lingua è molto meno simile al nostro italiano corrente di quanto si immagini a prima vista. E tuttavia la prosa è affilata e la finezza, la lucidità delle idee non prescinde mai dal senso storico e dall’osservazione disincantata della realtà e della natura umana.

Il Principe machiavelliano è l’unico sovrano italiano che abbia conquistato il mondo nell’arco di cinque secoli. Una conquista letteraria, non militare, come si addice a una nazione culturale come l’Italia. Ma in Italia che effetto ha avuto la sua opera? Citata a livello letterario, deplorata a livello morale, praticata a livello di tattica e di ragion politica, raramente assimilata nel suo significato vero: primato della politica, sovranità della decisione, della ragion di Stato e dell’amor patrio, nel segno delle virtù repubblicane.

Nel Novecento l’opera di Machiavelli fu esaltata da Gramsci e da Mussolini che ne curò nell’edizione del 1924 Il Preludio (altre due prefazioni al suo Principe scrissero poi altri due premier, Craxi e Berlusconi). Se ne innamorarono nel Novecento anche capi del governo importanti come Kennedy e Mao Tse Tung.

Machiavelli descriveva, non prescriveva, i moventi cinici e spietati dell’agire politico. Faceva i conti con la natura umana e le invarianze della storia, senza illusioni. Sapeva, come i Padri della Chiesa e lo stesso Sant’Agostino, che l’uomo non nasce buono e pio ma egoista e crudele, col suo peccato originale; poi magari col tempo e l’educazione si può contenere la cattiveria e renderla perfino fruttuosa. Non ebbe torto Giuseppe Prezzolini in un aureo libretto, Cristo e/o Machiavelli, a mettere a confronto il realismo cristiano con il realismo di Machiavelli scoprendo più affinità che contrasti.

C’è in Machiavelli un intreccio di cinismo e candore che trova il suo equilibrio nel realismo politico. Cinismo nel valutare l’agire politico e i suoi moventi, rifuggendo i moralismi puritani e le prediche rovinose alla Savonarola; e candore nel ritrovare la purezza nello studio dei classici e nella venerazione umanistica per gli antichi e per la loro visione.

Al centro dell’opera di Machiavelli c’è la patria e la sua concrezione politica e istituzionale, lo Stato; gli uomini ne sono locatari, sovrani provvisori, sudditi. Machiavelli si dice disposto a perdere l’anima per salvare la patria, e di solito ci si sofferma sulla prima frase, dimenticando la seconda. Più volte accostato a Lutero, Machiavelli in realtà indica la via opposta, la preminenza dello spirito pubblico sulla coscienza privata del singolo.

E l’etica del fine che giustifica i mezzi, con cui di solito si volgarizza e brutalizza il machiavellismo, è comunque più alta e più rara dell’antimorale, assai più frequente, dei mezzi che si sostituiscono ai fini. La corruzione nasce quando i mezzi, come il potere e la ricchezza, diventano scopi e pervertono l’agire politico e il bene comune. Il fine trascende i mezzi ma non sempre li giustifica.

Il Principe, per lui, “non deve partirsi dal bene, potendo; ma saper intrare nel male, necessitato” giacché “uno Principe per mantenere lo Stato è spesso forzato a non essere buono”. Gli uomini lasciati allo stato naturale sono portati alla malvagità; lo Stato assume a livello civile un ruolo analogo a quello della Chiesa in senso pastorale. Ciò era già in nuce in Sant’Agostino. Ambedue, pessimisti, concepirono lo Stato come un’auctoritas necessaria per correggere il male di una società allo stato naturale.

Al politico, per Messer Niccolò, occorre “una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique”. Da una parte egli sconsiglia l’introduzione “di nuovi ordini” ma dall’altro freme l’attesa verso “un omo che di nuovo surga” e “faccia le nuove legge e li nuovi ordini”. “Di nuovo surga” si tradurrà poi con Risorgimento. In questa chiave scrissi un ritratto di Machiavelli nel mio libro Imperdonabili (Marsilio). Machiavelli esalta il conflitto politico e sociale come motore dell’innovazione e garanzia di libertà. Ma ripudia il conflitto permanente che diviene “cagione della rovina del vivere libero”.

Oggi la sua lezione sarebbe necessaria per uscire dalla politica provvisoria, di cortissimo respiro, che disegna parabole effimere e non lascia tracce né disegna strategie. E per entrare nella Grande Politica, che coglie i nessi con la storia, la natura e l’arte, proiettata ad affermare il suo primato, nel nome degli interessi generali e del bene comune, rispetto ai nuovi lanzichenecchi e ai nuovi clericali del nostro tempo: lo strapotere della tecno-finanza e il moralismo del politically correct.

Machiavelli dedicò l’opera al Principe del tempo, un Lorenzo de’ Medici, da non confondersi col Magnifico. E la sua prima copia fu donata da Messer Niccolò al duca insieme a due cani da caccia. Si racconta che il sovrano abbia apprezzato molto i cani da caccia, assai più dell’opera. Dopo più di cinquecento anni le cose non sono cambiate. I principi non leggono, non capiscono i capolavori e non accettano saggi consigli, preferiscono i cani fedeli e i servili adulatori. Al più ghost writer e influencer… L’unica consolazione è che mezzo millennio dopo non ricordiamo nulla di quel principe né dei suoi segugi, ma celebriamo l’opera di Machiavelli. Alla lunga, l’intelligenza vince sul potere e le idee oscurano i latrati.

 

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