Perché il mondo arabo capisce meglio di Parigi e Londra la necessità di eliminare Hamas
Per decenni, il conflitto israelo-palestinese ha diviso il mondo in fazioni contrapposte. Mentre l’Occidente dibatteva sul diritto alla resistenza, sulla proporzionalità della risposta israeliana o sulla distinzione – spesso artificiosa – tra l’ala militare e quella politica di Hamas, qualcosa di molto più concreto accadeva nel cuore del mondo arabo.
Un cambio di paradigma, silenzioso ma profondo, si è manifestato chiaramente alla fine di luglio a New York
Lì, in una conferenza internazionale che ha riunito oltre sessanta delegazioni, i ventidue Paesi della Lega Araba hanno firmato – senza eccezioni – una dichiarazione che chiede esplicitamente a Hamas di consegnare le armi, cedere il controllo di Gaza e fare spazio a una soluzione politica guidata dall’Autorità Nazionale Palestinese. Il linguaggio usato non lascia spazio a interpretazioni: Hamas viene indicato come un ostacolo alla pace, un impedimento alla nascita di uno Stato palestinese legittimo e riconosciuto.
Non è una presa di posizione isolata o retorica
Tra i firmatari ci sono Paesi come il Qatar, storicamente vicino al movimento islamista, e l’Arabia Saudita, che fino a pochi anni fa legava ogni apertura verso Israele a progressi concreti sulla causa palestinese. Anche l’Egitto, da sempre attento agli equilibri nel Sinai e alle dinamiche interne di Gaza, ha sottoscritto la dichiarazione senza riserve.
Mentre l’Europa si muove con cautela, trattenuta da un dibattito interno segnato da opinioni polarizzate e timori politici, il mondo arabo sembra aver maturato una consapevolezza più fredda e lucida. Hamas, nella lettura di queste capitali, non è più un baluardo contro l’occupazione, ma un ostacolo che alimenta instabilità, caos e soprattutto la frammentazione della causa palestinese
La posta in gioco è alta. In cambio del disarmo di Hamas e della riunificazione del governo palestinese sotto l’Autorità Nazionale, la comunità internazionale ha messo sul tavolo un piano ambizioso: 53 miliardi di dollari per ricostruire Gaza, infrastrutture sotto controllo civile, e una road map per il riconoscimento di uno Stato palestinese entro il 2027.
Gaza, smilitarizzata e ricostruita, potrebbe tornare a essere parte di un progetto nazionale condiviso, invece di restare un’enclave assediata e sotto il dominio di un gruppo armato
Non si tratta di un’utopia improvvisata. Si tratta, piuttosto, di una lettura strategica della realtà: per molti Paesi arabi, Hamas è oggi uno strumento dell’influenza iraniana, un detonatore di instabilità interna e un freno alla normalizzazione regionale.
Eliminare Hamas dal panorama politico non significa negare i diritti dei palestinesi, ma, al contrario, renderli finalmente realizzabili attraverso una leadership riconosciuta e credibile.
A Parigi e Londra, invece, si continua a ragionare con categorie che il mondo arabo sembra avere superato: la resistenza come principio assoluto, la retorica delle vittime e carnefici, la paura di prendere una posizione netta
Ma mentre l’Europa esita, il Medio Oriente sceglie. E in quella scelta, forse, c’è una lezione che andrebbe ascoltata con più attenzione.
Perché per chi vive nella regione, la pace non è più uno slogan. È una necessità geopolitica, sociale e persino morale. E Hamas, in questo scenario, non è più la soluzione. È parte del problema.
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