Paura del futuro

Quarant’anni fa, di questi tempi, finiva la storia, finiva la modernità e cessava di battere il novecento, come l’avevamo conosciuto fino allora. Il nome che indicava questo congedo o questo collasso, diventò presto virale: postmodernità. Si intitolava La condizione postmoderna il libro-segnaepoca di Jean-Francois Lyotard, uscito nel 1979 che aprì le danze e la fuga dalla storia e dall’ideologia del progresso. Il postmoderno non designava solo una concezione artistica, ma segnava la liquidazione del secolo furioso, delle ideologie e dei grandi racconti, la fine dello spirito pubblico, il ritorno del privato che allora si chiamò Riflusso, che oggi ha solo un significato gastro-esofageo. Nel postmoderno tornava sotto false spoglie l’antico, come un nonno travestito da nipote, era il cortocircuito della storia, il comunismo si faceva catarroso per poi mostrare il segno della sua disfatta, il terrorismo politico finiva la sua stagione aurea che poi concise con gli anni di piombo. Era ormai sepolto il Novecento di due guerre mondiali, grandi rivoluzioni e guerre civili, irruzione delle masse e genocidi. “Con la storia mi accendo la pipa” annunciava Roland Barthes. Poi fu Gianni Vattimo a certificare nel pensiero “la fine della modernità”.

Esplosero le tv commerciali e le radio private, lo spirito ribelle del sessantotto virò sul sesso, i costumi e i consumi. Da collettivo si fece single. E nel mondo, Reagan e Reagan da una parte e il vigoroso Papa polacco dall’altra, aprivano nuovi scenari economici e mediatici, politici ed ecumenici. Nacque la deregulation, cominciò la fuga dal socialismo e dallo statalismo, mentre ad est,  tirò la volata che avrebbe poi contagiato l’intero blocco sovietico. Da allora la rivoluzione cessò d’essere un programma politico per indicare solo la rivoluzione delle merci, dei mercati, degli oggetti. La tecnologia sostituì l’ideologia, l’economia prese il posto della storia, il secolo passò da totalitario a globale. Tutti si sentirono più liberi e più soli, interconnessi ma sradicati, nomadi spaesati alla ricerca del paradiso privato più che del paradiso storico. Nessuno pensò più che un’idea, un movimento, un partito, potessero dare senso e felicità a una vita, a un popolo, a un paese. Parve una liberazione, uno sprigionarsi d’energie; edonismo e spensieratezza la fecero da padroni.

Ma a ben vedere, qualcosa di importante, di decisivo stava accadendo e non ne eravamo del tutto consapevoli. Stava cominciando quel processo di cui oggi scontiamo gli effetti più vistosi: stava sparendo il futuro. Tutto era qui, adesso, l’attimo fuggente, prendi al volo la vita; conta come io mi sento, adesso. Gli anni precedenti avevano dichiarato guerra al passato, parricidio, liberazione da tutto ciò che veniva dalla storia e dalla tradizione; antico stava per arretrato, retrò, matusa. Ma ora si compiva la seconda metà della parabola. Finiva pure il futuro. Non c’erano più orizzonti d’attesa, non si coltivavano più utopie, paradisi rivoluzionari in terra, redenzioni annunciate. L’avvenire perdeva di colpo ogni attrattiva, si piegava sul presente. Nacque allora la dittatura del presente, quell’infinito presente globale in cui siamo immersi da allora, senza soluzione di continuità e di prospettiva. Si persero i confini tra arte e pubblicità, tra pensiero e comunicazione, tra filosofia e sociologia. Il passato riapparve in vesti leggere, come vintage e frammento. Anche la modernità, invecchiando, si fece modernariato. Vi fu chi inventò l’archeo-futurismo.

Che vuol dire “scomparsa del futuro”? Vuol dire che non ci proiettiamo più oltre, niente progetti lunghi, investimenti sulle generazioni che verranno, opere destinate a durare. Anzi il futuro genera inquietudine, sgomento, paura. Perché? Se togli ogni aspettativa all’avvenire, il futuro resta solo il tempo della nostra vecchiaia e poi della nostra morte. O la catastrofe mondiale, ecologica, tecnologica, o legata al sovraffollamento del pianeta. Insomma fattori che sovrastano le umane volontà e generano l’età dell’ansia, il regno dell’angoscia. Dunque, meglio rimuovere il futuro, meglio scacciarlo, non pensarci.

Del futuro ci parla solo la tecnologia. Futuro è oggi solo il 5 G, l’i-phone 11, l’i-pad di nuova generazione. Il futuro è solo il cammino della tecnica. Non si può mettere in discussione l’assetto globale, il sistema economico-sociale, il trend dominante, i “valori” pubblici e la storia come ci è stata insegnata, tutto è fisso e inalterabile, la via del domani è a senso unico; il mondo si può solo mescolare, ibridare, allargare, senza mutare direzione e senso; e quanto alle attese si può solo aspettare il perfezionamento della tecnica o del mercato. Sparisce il futuro in politica e nell’imprenditoria, nella religione e nella cultura, nella famiglia e nel lavoro. Tutto sconfina. Se la modernità segnò la supremazia del tempo sull’essere, la postmodernità segnò il primato della “mia” percezione del tempo sulla sequenza e sulla narrazione storica. Tutto diventò contemporaneo, estemporaneo, soggettivo. Schegge di passato, scaglie di futuro, ebbrezze emozionali, stati passeggeri. Il capitalismo si fece neo, poi turbo, tecno, global, finanziario, ma si replica all’infinito, senza possibilità di superarlo. Salvo oasi di ristoro, tra decrescita, localismi e isole ecologiche.

Questa è stata la parabola del postmoderno in questi quarant’anni. E adesso?

Non si può rimanere solo posteri, postumi e posticci, aggrappati all’oggi all’infinito. Per non temere il futuro bisogna cambiare sguardo, cambiare segno alla vita, rinascere a nuova vita, fondare e ingravidare il domani, aspettare gli dei. Date un nome a quel che viene dopo il postmoderno, altrimenti non si volta.

MV, Panorama, n.8 2019

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