Pakistan e Afghanistan, un secolo di confini e rivoluzioni
La tensione tra Afghanistan e Pakistan lungo la cosiddetta Linea Durand è tornata a esplodere dopo giorni di combattimenti e bombardamenti che hanno coinvolto persino la capitale afghana, Kabul
Dietro gli scontri più recenti si nasconde una disputa antica, mai davvero risolta, che risale alla fine dell’Ottocento e continua a rappresentare una delle fratture più profonde dell’Asia meridionale.
La Linea Durand fu tracciata nel 1893 dal diplomatico britannico Mortimer Durand, allora rappresentante dell’Impero britannico in India, per delimitare i confini dell’Emirato dell’Afghanistan. L’accordo, firmato con l’emiro Abdur Rahman Khan, divideva artificialmente il territorio abitato dai pashtun, una popolazione unita da legami tribali e culturali ma da quel momento separata da una frontiera lunga oltre duemilaseicento chilometri.
Dopo la nascita del Pakistan nel 1947, Kabul fu l’unico governo a non riconoscere ufficialmente quella linea, considerata un’imposizione coloniale. Da allora, il confine è rimasto un punto di frizione costante, teatro di traffici, militanze e scontri, dove il potere degli Stati centrali è spesso debole e le lealtà locali prevalgono sulle appartenenze nazionali
Oggi la linea di frontiera divide due Paesi molto diversi ma entrambi instabili. L’Afghanistan, tornato nel 2021 sotto il controllo dei Talebani, è un emirato isolato, privo di riconoscimento internazionale, sottoposto a un rigido regime teocratico che ha riportato indietro di decenni i diritti civili, in particolare quelli delle donne. Dall’altra parte, il Pakistan resta formalmente una democrazia parlamentare, ma nella realtà è un sistema politico in cui l’esercito mantiene un ruolo dominante. Nel corso della sua storia, il Paese ha conosciuto lunghi periodi di governo militare e, anche nei momenti di apparente normalità istituzionale, i vertici delle forze armate continuano a orientare le decisioni fondamentali.
Pur con tutte le sue contraddizioni, il Pakistan rappresenta ancora un argine al dilagare del fondamentalismo talebano. Il confine con l’Afghanistan è diventato negli anni non solo una linea politica, ma anche un vero spartiacque tra due modelli di potere: da un lato l’islamismo radicale, dall’altro una democrazia imperfetta ma dotata di istituzioni e strutture statali consolidate
Negli ultimi giorni, la frontiera si è trasformata nuovamente in un campo di battaglia. Violenti scontri tra le forze afghane e quelle pakistane si sono concentrati nelle aree di Spin Boldak e Chaman, provocando decine di vittime e centinaia di feriti, secondo fonti delle Nazioni Unite. Il livello di tensione è salito ulteriormente quando il Pakistan ha compiuto attacchi con droni su Kabul, colpendo obiettivi che Islamabad ha descritto come basi del Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP), gruppo armato responsabile di numerosi attentati nel Paese. Il governo talebano ha denunciato l’operazione come una grave violazione della sovranità nazionale, parlando di vittime civili e di un’aggressione senza precedenti.
Un cessate il fuoco di quarantotto ore, concordato a metà settimana, ha fermato temporaneamente le ostilità, ma la tregua resta fragile e il rischio di una nuova escalation non è escluso
Il Pakistan, che possiede un arsenale nucleare stimato in oltre un centinaio di testate, rimane un attore decisivo per gli equilibri regionali. In passato è stato un alleato dell’Occidente nella guerra al terrorismo e un partner strategico nella stabilizzazione dell’Afghanistan dopo il 2001. Oggi, però, si trova stretto fra due confini difficili: a ovest quello afghano, a est quello con l’India, dove le tensioni nel Kashmir continuano a riaffiorare periodicamente.
Il recente confronto armato con i Talebani dimostra quanto sia sottile la linea che separa il Pakistan da un coinvolgimento più diretto nei conflitti della regione. La sua posizione, di democrazia imperfetta ma ancora funzionante, ne fa al tempo stesso un fattore di equilibrio e un punto di vulnerabilità
Gli scontri delle ultime settimane sono costati la vita a decine di persone, in gran parte militari, e hanno aggravato una crisi umanitaria che da anni affligge la regione di confine. L’auspicio è che la fragile tregua regga e che la linea Durand, da oltre un secolo simbolo di divisione e instabilità, non torni a infiammarsi. Un nuovo surriscaldamento militare, in un’area già provata da povertà, insicurezza e migrazioni, rischierebbe di compromettere la già precaria stabilità dell’Asia meridionale, con conseguenze destinate a farsi sentire ben oltre i suoi confini.
Il Pakistan, nato nel 1947 per dare una casa agli indiani di fede musulmana, è storicamente un Paese prezioso dal punto di vista geografico: si affaccia sul Mar Arabico e rappresenta l’unico sbocco diretto verso l’Oceano Indiano per l’intera fascia nord-occidentale del subcontinente
Proprio questa posizione strategica ha reso cruciale la sua esistenza nei giochi di potere tra le grandi potenze. Fu anche uno dei motivi che spinsero l’Unione Sovietica, alla fine degli anni Settanta, a occupare l’Afghanistan nella speranza di estendere la propria influenza fino al mare e di costruire così un asse perpendicolare verso il Pakistan.
Il progetto si infranse sulle montagne afghane: il regime comunista di Kabul, guidato da Mohammad Najibullah, ultimo presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, resistette per anni all’avanzata dei mujaheddin.
Najibullah, salito al potere nel 1987 e sostenuto da Mosca fino al ritiro delle truppe sovietiche nel 1989, riuscì a mantenere il controllo di Kabul fino al 1992, quando, esaurito l’appoggio dell’URSS, il suo governo cadde.
Rifugiatosi nella sede delle Nazioni Unite, fu catturato e giustiziato dai Talebani nel settembre del 1996. La sua resistenza, durata ben oltre la presenza sovietica, rappresentò uno degli ultimi tentativi di costruire uno Stato afghano moderno e centralizzato
Il ricordo di quella lunga e disperata difesa, seguita dal crollo e dall’ascesa talebana, ha lasciato un segno profondo nella memoria collettiva del Paese. Quando nel 2021 gli Stati Uniti si ritirarono improvvisamente dall’Afghanistan, l’ombra della fine di Najibullah e della sconfitta di allora tornò a proiettarsi sulla popolazione.
Molti soldati e funzionari, temendo un epilogo simile, scelsero di non combattere: la disfatta dell’esercito afghano, più che una sorpresa militare, fu anche una resa psicologica. Il ricordo di una resistenza inutile, durata fino all’ultimo uomo e terminata nel sangue, contribuì a spegnere ogni volontà di opposizione. Il popolo, esausto dopo oltre quattro decenni di guerre, apparve rassegnato al ritorno del medioevo talebano
Da allora quella regione, che per decenni ha rappresentato un campo di battaglia geopolitico tra Est e Ovest, ha progressivamente perso centralità strategica. Con il ritiro americano e il ritorno dei Talebani al potere, l’Afghanistan è tornato a essere un territorio sospeso, dove le tensioni etniche e religiose covano sotto la cenere.
È la stessa terra che, non molti decenni fa, fu l’unico territorio capace di resistere all’espansione coloniale britannica e che fino agli anni Settanta del secolo scorso mostrava al mondo un volto diverso: una nazione dignitosa, colta, aperta, in cui le donne studiavano, lavoravano e partecipavano alla vita pubblica.
Quell’Afghanistan, prospero e vitale, cominciò a scomparire proprio con l’intromissione politica sovietica, che innescò un ciclo di violenza e instabilità dal quale il Paese non è più riuscito a riemergere
Oggi, in quella stessa regione dove si incrociano le eredità del colonialismo e le ambizioni delle potenze moderne, la speranza resta che la linea Durand non torni a essere il punto di rottura di un equilibrio già precario. L’Afghanistan e il Pakistan, legati da una storia di conflitti e dipendenze reciproche, restano due volti della stessa fragilità: quella di un’area del mondo che, da oltre un secolo, continua a vivere sul margine sottile che separa la stabilità dalla rovina.
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