Massacra la moglie per gelosia, ma non va in carcere: ci sono limiti alla decenza delle sentenze
C’è un limite oltre il quale anche la comprensione umana deve fermarsi.
C’è una soglia oltre la quale l’attenuante emotiva diventa una beffa alla giustizia
È il caso di una recente sentenza che sta facendo discutere: un uomo massacra di botte la moglie perché scopre un tradimento, ma il tribunale lo giustifica parzialmente parlando di “sfogo umano” e non lo manda in carcere.
È evidente che un tradimento può ferire profondamente, può sconvolgere, può portare a gesti impulsivi
È altrettanto chiaro che il diritto distingue — giustamente — tra un’azione compiuta a mente fredda e un gesto dettato dall’impeto del momento. Ma questo non può e non deve mai significare che un pestaggio, un’aggressione brutale, possa essere giustificata o derubricata come reazione emotiva.
La reazione istintiva ha dei limiti. Anche nel dolore più grande, un essere umano deve restare tale — non cedere alla violenza, non trasformarsi in carnefice.
E la giustizia deve rimanere lucida, salda nei suoi principi
Una donna può tradire, può deludere, può ferire sul piano emotivo e personale. Ma non può per questo diventare un bersaglio fisico. E soprattutto non può essere che un tribunale — in uno Stato di diritto — giustifichi un massacro a botte come se fosse una reazione comprensibile.
Una simile sentenza non solo è pericolosa sul piano simbolico: è un messaggio devastante per tutte le donne
È un via libera alla giustificazione della violenza domestica. È un passo indietro di decenni. Fortunatamente, il nostro ordinamento ha abolito da tempo la formula infame del “delitto d’onore”, che permetteva di uccidere un coniuge infedele ottenendo pene ridotte, come se l’“onore” potesse giustificare un omicidio.
Un film con Marcello Mastroianni ci ricorda con ironia amara quanto fosse radicata questa mentalità: l’onore ferito come scudo giuridico per crimini efferati.
Eppure oggi, nel 2025, sembra che quel tipo di indulgenza stia tornando dalla finestra sotto un altro nome
Ci sono comportamenti esecrabili, certo. Ma nessun comportamento, nemmeno il più sleale, può trasformare la vita di una persona in qualcosa di sacrificabile. La violenza non è mai giustificabile. E la violenza contro chi è fisicamente più debole è ancora più grave, non meno.
Parliamo tanto di femminicidio, di rispetto, di tutela delle donne, poi assistiamo a una sentenza che di fatto minimizza un’aggressione violenta in ambito domestico.
È accettabile? È questo lo standard della giustizia italiana?
Questa non è una sentenza degna di una Repubblica democratica, fondata sull’uguaglianza e sulla dignità della persona.
Questi sono verdetti che ci aspetteremmo, con tutto il rispetto, da regimi o contesti in cui le donne non godono degli stessi diritti degli uomini, dove il genere pesa nella bilancia della giustizia, dove il matrimonio è ancora una questione di possesso
L’attenuante del “sangue caldo” può al massimo ridurre lievemente una pena, mai annullarla. E mai — mai — far apparire la violenza come qualcosa di comprensibile, accettabile, umano. Perché in questo modo si fa violenza anche alla giustizia stessa.
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