La strategia di Salvini: semplice crisi di governo o svolta del sistema politico?

Ultima domenica d’agosto, fase finale della crisi di governo: alzi la mano chi solo un mese fa avrebbe scommesso che sarebbe stato questo il quadro politico. È vero, c’era da approvare il decreto “sicurezza bis”, si aspettava il voto parlamentare sulle mozioni riguardanti l’Alta Velocità, si dibatteva di manovra economica con annesse varie ed eventuali, si discuteva del nome italiano da proporre per la Commissione UE… Tutti nodi complessi, alcuni tanto aggrovigliati da diventare barriere difficilmente aggirabili. Tuttavia la forza delle cose faceva supporre che chi stava al governo sarebbe riuscito a superare in qualche modo i problemi, dando al tempo stesso argomenti a chi si poneva in contrapposizione.

Quel che è successo, a cui non siamo abituati per tempistiche e per modalità, induce dunque a domandarsi se siamo di fronte ad una semplice crisi di governo o all’ennesimo punto di svolta del sistema politico, con conseguenti necessari assestamenti. Propendiamo per la seconda opzione, vediamo perché.

È opinione sempre più diffusa che – al di là di perplessità sollevate sulla tattica utilizzata e sulle tempistiche scelte – la decisione di Salvini di togliere la fiducia al Governo non nasca da una follia estiva, magari determinata da sbalzi umorali improvvisi: il leader della Lega è politico troppo scaltro e concreto per far dipendere decisioni così importanti da motivi irrazionali. Al tempo stesso la sola causa della convenienza di incassare il consenso virtuale appare semplicistica, perché Salvini avrebbe potuto aprire la crisi con maggiore certezza di andare al voto in altri momenti, passati e futuri. Più verosimile appare lo scenario di capitalizzare quanto più possibile in termini di risultati, proprio per il fatto di sentirsi già da settimane costretto a prendere atto della realtà. Quale realtà?

La percezione che i 5 Stelle sul piano nazionale fossero divenuti fin troppo mansueti per essere sinceri, inserita nel contesto di un avvicinamento progressivo tra il Movimento e il PD zingarettiano (vedasi contestuale elezione di un dem alla presidenza del Parlamento europeo e di un grillino alla vicepresidenza), culminato nell’impensabile voto comune a favore della candidata presidente della Commissione europea, ha dato al segretario leghista la ragionevole certezza che la manovra “ad excludendum” a danno del proprio partito – ordita dai soliti Macron e Merkel, ai quali il premier Conte ha fatto da fido scudiero, e corroborata dalle ripetute manovre ‘politicizzate’ delle navi ONG nel Mediterraneo per mettere in costante difficoltà il Ministro dell’Interno – fosse ormai in atto, come tentativo di logoramento psicologico oltre che politico. A quel punto Salvini ha capito che doveva giocare d’anticipo: la permanenza al Governo sarebbe divenuta una lunga agonia, l’unica soluzione era far saltare il banco.

Certo, il vicepremier probabilmente non si aspettava una reazione cosi decisa di Conte, apparso tecnicamente inattaccabile sul piano formale ma eccessivamente tracimante e fuori tempo massimo nella requisitoria contro il proprio Ministro dell’Interno, per apparire pienamente genuino. Quell’intervento al Senato è sembrato più un omaggio deferente ai nuovi possibili alleati di sinistra piuttosto che una pur vigorosa presa d’atto del venir meno delle condizioni per proseguire: il premier si è tradito mostrando un puntiglio e uno stile cattedratico (evidentemente frutto della propria esperienza professionale) che mal si addice a un brillante discorso parlamentare. Se fosse stato altrettanto diretto ma limitandosi ad alcuni appunti sostanziali (anche di forma ma sostanziali) sarebbe apparso più credibile, al contrario l’eccesso di luce negativa gettata su Salvini appare – a distanza di pochi giorni – il frutto di una precisa volontà politica, cioè abbattere quello che da tempo era schedato come avversario.

Salvini ha comunque realizzato un’operazione che, per quanto spregiudicata, sgombra il campo dagli equivoci di un Governo ormai fittizio e gli procura un vantaggio competitivo, qualunque sia l’esito della crisi: se ci fosse una nuova maggioranza PD-5 Stelle lo scenario gli sarà tendenzialmente favorevole in vista della campagna elettorale, quand’anche fosse non a breve, anche in ragione della presumibile caduta di consenso del Movimento; se invece riuscirà ad impedire quell’intesa di potere riassettando su nuove basi l’accordo giallo-verde avrà fatto chiarezza per la successiva azione di governo e rimesso in enorme, forse definitiva, difficoltà il Partito Democratico; se poi si andrà alle urne in autunno si presenterà come il naturale favorito, con buone probabilità di capitalizzare il contesto divenuto congeniale.

Ecco dunque che la crisi di governo assume i contorni di un momento di svolta del sistema politico attualmente a tendenza tripolare: lungi dall’essere stato fulminato sulla via della crisi il leader della Lega ha mostrato una capacità strategica che, al netto di tattiche variabili in funzione dello scenario che emergerà, potrebbe disvelarsi poco alla volta sempre di più e realmente mutare il quadro sistemico.

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