La rivoluzione anticristiana nasce nel ’68

Intervista di Wodzimierz Redzioch a MV pubblicata sulla rivista polacca Niedziela.

L’anno scorso sono passati esattamente 50 anni dalla “rivoluzione studentesca” del 1968. In Polonia, sotto il regime comunista, questi eventi hanno avuto un’eco minore e non ci siamo resi conto che i fatti del ’68 hanno cambiato radicalmente la società e la cultura dell’Occidente d’allora ma condiziona pesantemente anche il nostro oggi. Allora vorrei analizzare con Lei, che ha scritto un libro su questo argomento, Rovesciare il ‘68, l’ideologia e le conseguenze di questa “rivoluzione”.

Il ’68 era una vera rivoluzione?

Nel ’68 cambiò tutto ma non successe niente, nessun avvenimento storico o traumatico, nessuna presa della Bastiglia o del Palazzo d’Inverno. Solo eventi simbolici. Il ’68 fallì come rivoluzione politica ed economica, riuscì come rivoluzione culturale e di costume. Infatti da un verso non cambiò alcun assetto di potere politico e capitalistico, non produsse alcuna rivoluzione e alcun cambiamento radicale di sistema politico ed economico. Ma dall’altro verso, incise profondamente nel costume, nel rapporto tra le generazioni, nel ruolo della donna, nella scuola, nell’università, nella mentalità. Mutò il clima, lo spirito dell’epoca, ma nessun paese cambiò la sua classe dirigente, al governo e al potere economico.

Dietro gli slogan di liberazione c’era una vera e propria ideologia?

L’ideologia prevalente fu il parricidio, la liberazione dal passato, dalla tradizione, dal pater in ogni figura, dall’autorità, ma anche dal merito, dalla responsabilità, dalla capacità personale. Liberazione sessuale, emancipazione radicale, perdita dei legami, trionfo dell’”infinito presente globale”.

La liberazione “sessantottina” significava anche l’esplosione dei “nuovi diritti”: in pratica ogni desiderio e capriccio divenne “diritto”. Come questo fatto ha sconvolto il nostro modo di percepire i diritti?

La mancata correlazione tra diritti e doveri, tra meriti e riconoscimenti, tra libertà e responsabilità fu il tratto saliente del ’68. Sulla sua scia si è arrivati a sostenere “il diritto di avere diritti” (Stefano Rodotà) e questa stagione ha fortemente deresponsabilizzato le masse e i singoli individui, sostituendo il principio di realtà col principio di piacere.

Quali conseguenze nell’educazione delle nuove generazioni ha avuto l’imperativo “vietato vietare”?

Conseguenze devastanti. Separando i diritti dai doveri e collegandoli ai desideri, immaginando una società senza limiti, senza confini, senza misura, quella formula ha distrutto il tessuto connettivo della società e ha fatto nascere quell’intolleranza permissiva, che è poi il contrario della tolleranza repressiva che Marcuse denunciava nella società occidentale, per cui tutto è permesso ma guai a chi dissente da quel canone.

Oggi la liberazione sessantottina dallo Stato con le sue leggi, dalla famiglia e dalla religione con i suoi dogmi si allarga con le pretese di liberarsi dal nostro sesso biologico, dalla procreazione, dalle radici nazionali e culturali. Come possiamo contrastare questa apparentemente inarrestabile deriva dell’umanità?

Il ’68 e la cultura che ne è alle radici dichiarò guerra al destino, alla natura, alla realtà, nel nome della volontà, dell’autocreazione e dell’utopia. Il risultato si è abbattuto soprattutto sulla sfera intima, privata e famigliare, e nel rapporto col proprio sesso. Tornare alla natura e alla realtà, amare il proprio destino (Amor fati, dicevano gli Stoici, Nietzsche, e Simone Weil), è l’unico modo per ristabilire un rapporto vero con la vita e i suoi limiti.

Uno dei capisaldi del “vecchio mondo” combattuto dai sessantottini d’ieri e di oggi è la Chiesa cattolica che oggi è sotto attacco su scala mondiale. Ferrara commentando fatto nel contesto del processo kafkiano del card. Pell ha scritto:  “Vogliono colpire un’istituzione bimillenaria invecchiata, tragicamente incerta tra la sua tradizione e l’aggiornamento mondano, smantellando alcuni suoi caposaldi come il celibato, la cura d’anime, l’indipendenza del culto e della sua amministrazione da parte del clero consacrato, il celibato, il sacramento della confessione segreta, l’esclusione delle donne dall’ordinazione, la morale sessuale, la sua autorità di cultura e umanità, la fiducia dei fedeli, la sua gerarchia a partire dal vescovo di Roma, il Papa”. Concorda con Ferrara che c’è in atto una “crociata anticristiana” del “unico dominante che vuole mettere in ginocchio la Chiesa cattolica e la sua morale considerate l’ultima remora o contraddizione potenziale all’omologazione universale al nuovo credo scristianizzato del sesso, della riproduzione, della famiglia e del gender senza Dio né legge”?

L’intolleranza verso la civiltà cristiana e la chiesa cattolica è uno dei punti salienti della cultura dominante, laicista e materialista, e dei centri di potere degli eurocrati e degli euromagistrati. Il cristianesimo è accettato solo se è filantropia, assistenza umanitaria, accoglienza e pauperismo; ma viene totalmente risolto nella sfera privata riguardo ai temi propriamente religiosi, alla fede, alla missione evangelica. Anche sui temi della vita, della famiglia, della nascita, dei sessi, c’è la censura o il silenzio sulle posizioni cristiane, non vengono accettate.

L’anno scorso si festeggiava il settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. In quella occasione Francesco rivolgendosi al Corpo Diplomatico parlava di “una interpretazione distorta di ‘nuovi diritti’ soprattutto in seguito ai ‘sommovimenti sociali del ‘Sessantotto’, che porta a instaurare, in nome degli stessi diritti umani, forme di colonizzazione ideologica”.  Come interpreta le parole del Papa?

Quando il Papa parla di migranti, di accoglienza, di frontiere da abbattere, di pedofilia nella Chiesa ha una rilevanza mediatica eccezionale. Quando tocca invece i temi che più attengono al suo magistero e alla sua missione, allora viene silenziato o comunque posto in sordina. Il Papa che critica la società tradizionale è ben accetto dai poteri dominanti, il Papa che critica il Sessantotto e i suoi frutti (come l’aborto, il divorzio facile, la relativizzazione delle famiglie) viene evitato o frainteso.

La colonizzazione ideologica di cui parlava Francesco è possibile nel mondo globalizzato, senza frontiere auspicato da tanti “globalisti”. Lei ha invece evocato il ritorno “dei muri”. Come mai?

I muri non sono sempre e solo un male, una negazione, una chiusura; sono anche una protezione, una garanzia e un bastione di civiltà. Ci sono le mura domestiche, le mura di una Chiesa, le mura di cinta che salvaguarda le città nei secoli assediate. E comunque i muri più infami non sono quelli di impediscono di entrare in punti diversi rispetto alle porte, ma i muri che impediscono di uscire, come sono i muri delle prigioni, e come fu il Muro di Berlino e i fili spinati che recintavano la cortina di ferro. E comunque, al di là dei muri i confini sono una garanzia sul piano territoriale e giuridico, morale e civile, ma anche sul piano identitario e comunitario.

Alla fine, vorrei commentare con lei un fatto recente che sta nel centro dell’interesse dei media mondiali: la storia di una sedicenne paffuta ragazzine svedese con le trecce, Greta Thunberg. Anni fa le viene diagnosticata la sindrome di Asperger ed entra in depressione. Sente parlare di cambiamenti climatici e inizia a chiedersi ‘se avrò un futuro’. All’inizio si rinchiude in sé stessa ma dopo decide che per uscire dalla depressione deve occuparsi del clima. Non è uno scienziato, né un economista, né tantomeno un climatologo, si è formata sui luoghi comuni ma diventa una star mondiale che mobilita milioni di persone in tutto il mondo. Vedendo Jean-Claude Junker che le ha fatto il baciamano pensavo che Greta Thunberg potrebbe essere un simbolo del mondo voluto da sessantottini, il mondo con le gerarchie rovesciate, senza meritocrazia, senza autorità. Cosa ne pensa?

Greta è stata usata come un’icona, un ologramma, una password per veicolare un messaggio planetario e suscitare una mobilitazione globale. Se vogliamo, è l’ultimo grido del ’68, c’è il suo mondialismo e il suo ecologismo, la sua idea di rivolta globale e di agitazione di piazza. E c’è l’idea che non c’è bisogno di autorevolezza, esperienza e competenza per affrontare quei temi e guidare la ribellione; basta strumentalizzare l’immagine di una ragazza qualunque, il “candore” di una minorenne, meglio se con problemi di disabilità, per fondare un populismo adolescenziale “politically correct”.

Exit mobile version