La guerra infinita

Israeli security forces gather in Jerusalem following an explosion at a bus stop which wounded at least seven people, two of them seriously, on November 23, 2022. (Photo by Menahem KAHANA / AFP)

La guerra infinita

76 lunghi, lunghissimi anni. Tanto sta durando il conflitto israelo-palestinese, da quando nel novembre 1947 l’assemblea generale dell’ONU approvò la risoluzione 181. Unione Sovietica e Stati Uniti erano concordi nel varare un piano di ripartizione dei territori: il 56% sarebbe andato al nuovo futuro Stato di Israele, i restanti rimanevano ai palestinesi.

Interi paesi e villaggi, uomini e donne, vecchi e giovani, famiglie che da secoli abitavano in quei desertici e impervi territori dovevano fare posto ai nuovi “inquilini” per imposizione dell’ONU.

Per gli ebrei il nuovo Stato era una sorta di risarcimento morale per i torti patiti nell’Olocausto

Quei 6 milioni di ebrei ammazzati nelle camere a gas pesavano come un macigno nelle coscienze di tutti. Gli ebrei sparsi in ogni parte del globo avevano bisogno di una “casa” che li accogliesse e li proteggesse, soprattutto dai governi di quei Paesi europei che anche dopo la fine della seconda guerra mondiale continuavano a discriminare gli aschenaziti dell’Est e i sefarditi spagnoli.

Gerusalemme – luogo sacro per musulmani, cattolici, copti ed ebrei – sarebbe rimasta zona neutra sotto lo stretto controllo dell’ONU. David Ben Gurion, allora presidente dell’Organizzazione sionista mondiale, accettò la proposta. Il nuovo Stato di Israele, proprio nella terra biblica promessa, doveva essere fondato subito per richiamare tutti gli ebrei. Un luogo di pace e serenità per il martoriato popolo ebraico.

Niente di più lontano da quello che è stata poi la realtà

Il 14 maggio 1948 Gurion firmò il trattato dell’ONU e di lì a poco diventò premier, il primo del neocostituito Stato di Israele.

I palestinesi, cacciati dalle loro terre, dalle loro case, dai luoghi dove abitavano, non riconobbero mai il nuovo Stato. Il problema non era solo di natura religiosa, ma anche economico-sociale. La Palestina era stata divisa dall’ONU in diversi territori dove dovevano convivere i vecchi abitanti palestinesi e i nuovi arrivati ebrei. Di fatto gli autoctoni palestinesi si sono ritrovati da una regione ostile, ma ampia in piccole enclave senza o con scarsa possibilità di allontanarsi, di lavorare, di dare un futuro ai propri figli.

La situazione palestinese fu ben tratteggiata qualche decennio dopo da Giulio Andreotti: “Ognuno di noi sarebbe diventato un terrorista se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare un futuro ad un figlio”.

Fin da subito dopo la creazione dello Stato di Israele fu evidente che l’innesto “a freddo” deciso dall’ONU avrebbe portato a conseguenze nefaste.

La prima guerra iniziò il giorno stesso della proclamazione di Israele nel 1948

Siria, Egitto, Iraq e Giordania, paesi che non riconobbero il nuovo stato attaccarono fin dal primo giorno di vita del nuovo Stato . Il popolo di Israele capì ben presto che, se voleva rimanere in quei territori, doveva difenderli con le unghie e con i denti. Gli israeliani vinsero a mani basse il primo conflitto, occupando non più il 56% dei territori affidati dall’ONU, ma espandendosi al 72%.

L’odio dei Palestinesi cominciò a fermentare. Si formarono piccoli territori dove abitavano i palestinesi, piccoli centri circondati dallo Stato di Israele in cui insieme alla disperazione e alla disoccupazione dei propri abitanti covava la rabbia contro Israele e contro i Paesi che avevano permesso tale situazione. Si rifugiarono quindi in una stretta osservanza religiosa, che aveva come scopo di unire il popolo sconfitto sotto l’egida degli Imam e canalizzava la rabbia in un’organizzazione di stampo militare. Piccoli e grandi conflitti martorizzarono i luoghi sacri della Palestina. Il più grave avvenne fra il 5 e il 10 giugno 1967, nella guerra sanguinaria chiamata “dei 6 giorni”.

I servizi segreti israeliani erano in allerta già nella primavera del 1967 per un imminente attacco di Siria, Egitto e Giordania a Gerusalemme. Così il governo di Tel Aviv optò per un attacco preventivo, che fu devastante. Il piccolo ma ben addestrato e armato esercito israeliano conquistò parte del Sinai, di Gerusalemme est, tutta la Cisgiordania, la striscia di Gaza e le alture del Golan al confine con la Siria.

La sconfitta bruciò molto ai paesi sconfitti e portò ad una risposta nel 1973

Una coalizione formata da Egitto e Siria attaccò il territorio di Israele a sorpresa il 6 ottobre, giorno dell’Yom Kippur, una delle feste più importante per gli ebrei. I combattimenti furono durissimi, le perdite da entrambe le parti altissime, tanto che l’Onu fu costretta a intervenire per sedare i violenti contrasti.

Era chiaro che la situazione stava diventando incandescente. Serviva una mediazione- per trovare una strada verso la pacifica convivenza. Nel 1978 a Camp David, nel Maryland (Stati Uniti), si incontrarono il primo ministro egiziano Sadat e quello israeliano Begin. L’accordo di Camp David prevedeva il ritiro dell’Egitto dal Sinai in cambio del riconoscimento dello Stato di Israele.

Non tutti presero bene le risoluzioni di Camp David. In Palestina nacque una decina di anni prima l’OLP, organizzazione che aveva come scopo la liberazione della Palestina, con sede in Libano. Nel 1978 l’OLP era guidata da Yasser Arafat. Israele rispose attaccando e occupando i territori libanesi. In seguito si creò un territorio cuscinetto vigilato congiuntamente dall’esercito israeliano e l’esercito libanese, durato fino al 1985, con l’obiettivo di evitare ulteriori conflitti in particolare con il corpo paramilitare degli Hezbollah.

L’effetto di tale soluzione fu quello di aprire la strada al terribile periodo dell’Intifada

Nel frattempo, la diplomazia riprese il suo corso. A Oslo, nel settembre 1993, si incontrarono il primo ministro israeliano Rabin e Yasser Arafat. Un capolavoro di diplomazia. Per la prima volta si riconobbero come legittimi interlocutori Israele e l’OLP. Non si parlò però della questione Gerusalemme, motivo di divisione in quanto entrambe le parti la rivendicavano come propria capitale. Non fu neanche toccato per lo stesso motivo il capitolo Cisgiordania. Due anni più tardi Rabin fu assassinato da un ebreo, Yigal Amir, che non accettava il trattato di pace di Oslo, dimostrando quanto la strada della pace fosse imbottita di fanatismo religioso.

Sfruttando il caos politico seguito all’uccisione di Rabin, in Israele fu eletto con libere elezioni, Benjamin Netanyahu detto Bibi, capo di una coalizione nazionalista e religiosa. Ancora oggi Netanyahu, classe 1949, è il primo ministro di Israele e sta guidando il conflitto in atto. Le vicende politiche di Bibi sono state a fasi alterne. Nel 2000 era primo ministro israeliano Sharon, che ebbe la bella idea di sfidare i musulmani con una camminata nel sacro suolo delle spianate delle moschee a Gerusalemme. Un gesto ritenuto offensivo, che portò come conseguenza l’inizio del secondo periodo di Intifada. La provocazione costò 5000 vittime, a causa dei violenti scontri conseguenti al gesto di Sharon.

I combattimenti cessarono nel 2005, quando Israele dette un segnale di distensione uscendo da Gaza. Questo lembo di terra martoriato il 12 settembre 2005 passò sotto il controllo della Autorità Nazionale Palestinese. L’uscita di Israele da Gaza generò violente proteste contro Sharon. 8500 ebrei che risiedevano a Gaza, invitati a rientrare in Israele, si barricarono a casa e si rifiutarono di allontanarsi.

Nel 2006 vi furono le elezioni nel nuovo territorio di Gaza, vinte a sorpresa dal gruppo radicale di Hamas

In Cisgiordania invece prese il potere il gruppo denominato Fatah. Due fazioni musulmani rivali, che avevano cominciato una lotta fratricida.

Per contrastare il partito di Hamas, Israele ed Egitto si coalizzarono, con un embargo che – insieme alle continue guerre intestine – ha economicamente martoriato la striscia di Gaza. In questo stato di cose Hamas, per mantenere il potere in un luogo senza futuro, ha dovuto crearsi il nemico, chiamando alla guerra santa e attaccando Israele.

Nel 2014 Israele si vide costretta a rientrare nuovamente con il proprio esercito nel territorio di Gaza per distruggere le basi e le infrastrutture di Hamas, compresi i tunnel sotto il deserto costruiti per eludere l’embargo imposto da Egitto e Israele. La guerra durò più di 500 giorni, le vittime furono circa 2.500.

Il 2018 segna un altro evento traumatico. Il pretesto fu lo spostamento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, da sempre considerato luogo neutrale. Il fatto che un’ambasciata risiedesse lì significava considerare la città come capitale dello Stato.

Due anni fa un nuovo conflitto. Alcune famiglie palestinesi furono improvvisamente allontanate dal quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme. Intervenne violentemente per sedare le violenze la polizia israeliana che entrò dentro la moschea di Aqsa, nella spianata delle moschee di Gerusalemme, luogo per eccellenza nel mondo arabo in un periodo altrettanto sacro quale la fine del Ramadan. La replica di Hamas fu lanciare razzi su Gerusalemme. Per tutta risposta gli israeliani bombardarono la città di Gaza.

Morirono circa 300 persone fra ebrei e palestinesi

La storia fin qui riprodotta è una estrema sintesi delle vicende che sono occorse in questi anni in Palestina. Non è un resoconto esaustivo. I problemi della striscia di Gaza non solo ad oggi non si sono risolti, ma sono addirittura aumentati. Si attende da un momento all’altro un nuovo attacco di Israele a sud verso la città di Gaza, ma anche a nord verso Libano e Siria. La Turchia e l’Egitto temporeggiano ma sono in stato di allarme. Una polveriera. Si rimane stupiti che dopo tutti questi anni non sia stato possibile trovare una strada di convivenza fra popoli così diversi, ma che hanno una cultura straordinaria. E’ un luogo santo, la Palestina, anche se a vedere quello che succede oggi non si direbbe.

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