Israele e la difesa dei Drusi: una scelta strategica e morale contro l’ambiguità siriana
Nel cuore di una delle regioni più instabili del Medio Oriente, dove le alleanze si disgregano e si ricompongono secondo logiche mutevoli e spesso opache, l’intervento aereo israeliano del 16 luglio 2025 in territorio siriano segna un punto fermo difficile da ignorare.
Mentre nella provincia siriana di Suwayda infuriavano gli scontri tra milizie beduine armate, cellule jihadiste e comunità druse sotto attacco, Israele ha scelto di agire: bombardamenti mirati hanno colpito obiettivi strategici delle forze siriane e di gruppi irregolari, ponendo un argine a quella che appariva come una campagna di violenza sistematica contro una minoranza vulnerabile
La mossa israeliana, accolta con freddezza e ostilità dal nuovo presidente siriano Ahmed al‑Sharaa, merita una lettura attenta. Non si è trattato di un semplice atto difensivo lungo i confini settentrionali, né di una risposta reattiva a una minaccia diretta. È stata una scelta politica e morale che rompe i consueti schemi dell’ostilità arabo-israeliana: lo Stato ebraico si è schierato a difesa di una minoranza araba e islamofona, quella drusa, che in Israele non solo vive, ma partecipa attivamente alla vita dello Stato, fino a servire nelle forze armate e nei parlamenti.
I drusi, religiosamente distinti dall’Islam ortodosso, storicamente riservati e spesso perseguitati, sono stati vittime nelle ultime settimane di un’escalation di violenza che il governo centrale siriano non solo non ha fermato, ma che pare aver tollerato – se non, in certi casi, indirettamente favorito. Il presidente al‑Sharaa, salito al potere dopo il crollo del regime di Assad, è figura complessa: presentatosi al mondo come statista riformista, porta con sé un passato pesante. Conosciuto precedentemente come Abu Mohammad al‑Jolani, è stato leader del Fronte al-Nusra, il ramo siriano di al‑Qaeda, e più tardi guida di Hayat Tahrir al‑Sham, organizzazione tuttora considerata terroristica da molte potenze internazionali
Il suo distanziamento formale dal jihadismo – compiuto negli anni scorsi per cercare legittimazione politica – non cancella le ambiguità attuali. Di fronte agli attacchi alle comunità druse, al‑Sharaa ha parlato di “difesa della coesione nazionale” e “lotta contro infiltrazioni dell’ISIS”, ma ha respinto con veemenza l’intervento israeliano, definendolo un’aggressione alla sovranità siriana. La domanda che sorge spontanea è se questa sia davvero una posizione dettata da principio nazionalista o se piuttosto non tradisca una continuità ideologica con il radicalismo sunnita che ha caratterizzato la sua militanza precedente.
In questo contesto, l’intervento israeliano non è stato soltanto necessario: è stato determinante
Secondo fonti locali e osservatori indipendenti, l’intervento ha fermato l’avanzata di gruppi armati ostili nei villaggi drusi, salvando centinaia di vite e impedendo una pulizia settaria potenzialmente catastrofica. Il valore simbolico dell’operazione è ancora più rilevante: Israele ha agito non per ragioni etniche o religiose, ma per un principio – quello della difesa di una minoranza alleata, integrata e sotto minaccia.
Ma vi è un altro aspetto, troppo spesso ignorato, che emerge con forza da questa vicenda: l’azione di Israele a difesa dei Drusi evidenzia la complessità religiosa e civile dello Stato israeliano, spesso banalizzata o distorta nelle narrazioni occidentali. Israele non è una fortezza esclusivamente ebraica arroccata contro l’Islam.
È uno Stato in cui convivono e collaborano, con diversi gradi di integrazione e riconoscimento, ebrei, musulmani sunniti, drusi, cristiani arabi, circassi, beduini e altre minoranze
La comunità drusa, in particolare, gode di pieni diritti di cittadinanza ed è parte attiva delle istituzioni statali, in una dinamica di lealtà reciproca che sfida molti pregiudizi.
In contrasto con la semplificazione secondo cui Israele sarebbe la “nemesi dell’Islam”, l’intervento a favore dei drusi siriani dimostra che la politica israeliana non è fondata sull’ostilità religiosa, ma sulla protezione dei cittadini e dei partner regionali che condividono valori comuni, come la libertà di culto, la sicurezza e l’autonomia culturale. Quando una minoranza araba è sotto attacco da milizie sunnite radicali e da un governo ambiguo, Israele interviene non in quanto oppositore dell’Islam, ma in quanto alleato di chi è minacciato dal fanatismo.
In un Medio Oriente spesso intrappolato in letture binarie – ebrei contro arabi, sunniti contro sciiti, Islam contro Occidente – questo episodio rompe la narrativa dominante
Israele si è dimostrato, in questa circostanza, più coerente e reattivo nella protezione dei drusi rispetto al governo di Damasco. La fedeltà drusa in Israele, fondata su un patto di cittadinanza e reciproca lealtà, si è riflessa in una solidarietà che ha travalicato i confini.
Chi osserva i fatti da una prospettiva laica, strategica e realista non può ignorare che l’azione israeliana abbia fornito un raro esempio di intervento militare con una finalità chiaramente difensiva, mirata e in difesa di una minoranza araba. Una mossa che, nel contesto del nuovo assetto siriano, merita di essere compresa come segnale: non tutto è dimenticato, e non tutti sono disposti a credere alle apparenze di una moderazione improvvisata.
Per Ahmed al‑Sharaa, ora chiamato alla prova dei fatti più che delle promesse, resta aperta una domanda cruciale: può davvero guidare una Siria pluralista e unitaria, o il suo passato ingombrante finirà per tradirlo? E per la comunità internazionale, sarà possibile distinguere la retorica della pacificazione da una nuova forma, appena mascherata, di esclusione e radicalismo?
Sicuramente nel Maine stream italiano l’ attacco aereo israeliano sarà visto e diffuso come un’ atto di aggressione verso un paese inerme, non come il supporto ad una popolazione aggredita e minacciata di epurazione etnica.
La verità è che comprende ciò che accade in medio oriente con la chiave di lettura occidentale è come essere convinti da adolescenti di capire le donne.
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