ISRAELE AL BIVIO TRA GIUSTIZIA E POLITICA
Lunedì la Knesset, il Parlamento Israeliano, ha dato il via libera alla prima parte della riforma della giustizia in Israele. Punto di approdo storico per una vicenda che ha visto – e vede tutt’ora – contrapposte due anime molto diverse del Paese.
RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: UNA CONTRAPPOSIZIONE ANTROPOLOGICA
Da un lato, i conservatori più vicini a posizioni religiose e nazionaliste, dall’altro i laici e (sedicenti) progressisti. Una contrapposizione storica, ideologica e quasi antropologica che pone interrogativi importanti su quale tipo di futuro si delineerà per lo Stato Ebraico. Il futuro darà risposte, per adesso, invece, il presente è carico di incognite.
Pare che anche ogni tentativo di mediazione “ in extremis” tra maggioranza e opposizione sia fallito con reciproche accuse al punto che l’una è andata avanti sul testo originario, e l’altra è uscita dall’aula per protesta.
Una protesta che fa eco con quella di una parte consistente del paese, tra cui i riservisti – importantissimi nello Stato di Israele – che minacciano di interrompere il serivizio volontario, o i sindacati che preparano uno sciopero genenerale.
Insomma, uno scenario da guerra civile che infatti qualcuno ha evocato.
RAPPORTO TRA GOVERNO E CORTE SUPREMA
A ben vedere, l’intenzione del governo di procedere a riformare il potere giudiziario nello Stato Ebraico parte da un assunto piuttosto consueto nelle mature democrazie di stampo occidentale. Ovvero, trovare il giusto punto di equilibrio tra potere politico e potere giudiziario. E’ un tema che ben conosciamo anche in Italia da svariati decenni, ma che in Israele si colora di implicazioni specifiche non solo per il tipo di sistema giudiziario ivi vigente, ma anche per l’importanza che ha assunto in questo governo l’estrema destra nazionalista e ultraortodossa, da sempre favorevole a una limitazione sostanziale dei poteri della Corte Suprema.
IL PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA: VEICOLO DI DEMOCRAZIA O ARBITRIO GIUDIZIARIO?
Tecnicamente, la riforma mira a ridurre l’eccessiva influenza del potere giudiziario su quello politico-elettivo, con particolare riguardo al potere della Corte Suprema di cancellare integralmente leggi varate dal potere legislativo, sulla base di alcuni criteri ritenuti troppo generici quali ad esempio il principio di ragionevolezza.
In altre parole, quando la Corte giudica irragionevole una certa norma la può abrogare. Trattasi di un parametro cui i Supremi Giudici Israeliani hanno adottato spesso e che, di fatto, si traduce in una effettiva e drastica limitazione dell’organo politico che – condotta sulla base di criteri così fumosi – potrebbe generare degli abusi.
Intendiamoci, il criterio di ragionevolezza è un cardine del diritto costituzionale occidentale. Basta considerare, a mero titolo esemplificativo, le pronunce della Corte Costituzionale Italiana per averne pieno riscontro dal momento che la violazione dell’art. 3 Cost. È una base giuridica consolidata sia nella promozione dei giudizi innanzi alla Corte sia nelle relative decisioni.
Ma è pur vero che nel nostro – come in altri sistemi – tale criterio viene integrato da violazioni più specifiche, idonee cioè, a circoscrivere l’ambito di intervento dei giudici costituzionali limitando quindi l’alea di un giudizio che, altrimenti, correrebbe il rischio, appunto, di essere troppo generico. E come ben si sa, dove c’è genericità, c’è invasione di campo e pericolo di arbitrio.
DUE CONCEZIONI DI DEMOCRAZIA
Il Governo israeliano dunque mostra l’intenzione di limitare il ricorso a tale principio da parte della Corte per salvaguardare una concezione di democrazia che valorizzi il rapporto fra l’elettorato e la sua espressione politica, che deve essere messa in condizione di realizzare il programma per il quale è stato votato.
Dall’altra parte, invece, gli oppositori gridano al colpo di stato e alla lesione dei principi democratici in base alla presunta violazione dei checks and balances appellandosi alla necessità di un potere esterno che controlli il potere politico. Vien da chiedersi però chi controlla i controllori, in assenza di una Costituzione rigida e formale?
Insomma, siamo di fronte a due diverse concezioni di democrazia che dovrebbero armonizzarsi e che invece si scontrano in un conflitto che rischia di travalicare i confini del tema specifico per allargarsi oltremodo alla stessa essenza dello stato israeliano.
LA NOMINA DEI GIUDICI
Altro punto controverso è il meccanismo autoreferenziale con il quale il potere giudiziario nomina i suoi membri. Attualmente, tanto la Corte Suprema quanto i giudici del tribunali inferiori sono nominati da una commissione composta di 9 membri, di cui 5 di estrazione togata e 4 politica.
Premesso che questo aspetto della riforma non è ancora stato votato dalla Knesset, la proposta prevede l’allargamento a 11 membri della suddetta commissione a maggioranza di nomina governativa (ben 8).
Naturalmente, in caso di approvazione di questa parte della riforma, non potrebbero negarsi le preoccupazioni circa un possibile controllo da parte del potere politico su quello giudiziario con tutte le problematiche conseguenti. E’ pur vero che ad esempio in USA i Giudici della Corte Suprema sono espressione di nomina presidenziale, senza che ciò abbia mai suscitato accuse di scarsa tenuta democratica.
Ma negare il problema non ha senso!
CHE L’ESTATE POSSA PORTARE CONSIGLIO A TUTTI
Per adesso Netanhyau pur rivendicando con forza la riforma approvata si è mostrato aperto a discutere di alcuni punti di essa, congelando l’articolo che permette al Parlamento di superare le decisioni della Corte Suprema o quello in materia di composizione della commissione di nomina dei giudici della stessa. Piccoli segnali di apertura che lasciano spazi di mediazione autunnale, in attesa di Novembre, quando dovrebbe essere varato il testo integrale.
L’auspicio è che l’estate porti consiglio e l’autunno dialogo perché oltre le singole vicende, per quanto importante, esiste un valore assoluto che dovrebbe prevalere su ogni divisione e che è lo Stato di Israele, faro di democrazia (e, invero, questa vicenda lo dimostra), in un contesto di Stati che non aspettano altro che segnali di debolezza per riprendere offensive mai sopite contro il popolo ebraico.
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