Il tempo della Novida

NOVIDA

Come definire i giorni che stiamo attraversando sotto l’incubo della pandemia? Il tempo della novida, che è poi il contrario della movida.

La novida è la perdita di vita, di lavoro, di relazioni, di viaggi, di libertà, di rapporti famigliari, di occasioni che stiamo patendo per timore del virus. È la novida la principale causa della depressione che anche gli psichiatri vedono serpeggiare e crescere nel nostro paese; è la novida la molla che spinge alla rabbia e alla ribellione come all’abbattimento per angoscia e paura. Ci sono giornali in italiani che non dovrebbero essere venduti on line o su carta ma in flacone, perché dispensano ogni giorno dosi di terrore e d’ansia.

D’altra parte non è l’irresponsabilità, la negazione della realtà, la finzione che il virus sia una montatura, la spavalderia che possono aiutarci; un po’ di coraggio e di sano esorcismo fa bene, è come un vaccino. Ma se la dose è eccessiva rischia di peggiorare le cose. Eravamo leader mondiali di dolce vita, è struggente il ricordo dell’Italia vitale e vitazzuola che risale dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta, o dagli anni ottanta ai novanta. Un paese pieno di problemi e di inefficienze, di ladri e di caos, ma in cui ancora la qualità della vita era considerata tra le più alte. Da cui derivava la longevità italiana, leader in Occidente e seconda al mondo solo al Giappone.

Ora qual è la situazione?

Mettiamo a confronto dati più che impressioni. Ci avviamo alla fine di questo stramaledetto ventiventi a contare circa un morto per covid ogni mille abitanti. Uno su mille non ce la fa. Solitamente, i decessi riguardano ultraottantenni e solitamente già in gravi situazioni di salute. Non entro nel merito, perché non possediamo dati specifici tra chi muore di covid, chi col covid, non distinguiamo tra il covid come causa, concausa, colpo di grazia. Diciamo che nella media il covid ha abbreviato la vita di tre o quattro anni agli ultraottantenni più cagionevoli.

È un dato comunque forte, se si considera che in Italia abbiamo il triste primato europeo di decessi, e seguiamo a ruota paesi poco sviluppati, come il Messico e l’Iran, ammesso che i dati attribuiti all’Iran siano rispondenti al vero. Siamo leader occidentali in fatto di mortalità. Nel rapporto con le popolazioni battiamo anche gli inglesi, gli statunitensi e i brasiliani anche se l’informazione ci dava l’impressione inversa, per meschine ragioni politiche. La nostra mortalità supera di gran lunga in rapporto alla popolazione anche la Svezia, il paese europeo che non adottò il lockdown.

L’Italia è arrivata impreparata alla seconda ondata e ha adottato provvedimenti assurdi per quattro ragioni: 

1) la variabilità vorticosa dei cambiamenti, si procede a orecchio e a dato giornaliero, si cambia colore, situazione, normative con la velocità di un paio di mutande, tra la gente più pulita.

2) la lentezza progressiva con cui sono stati presi i provvedimenti restrittivi, giacché tutti sapevamo dall’inizio che saremmo finiti al punto di oggi, con le prime misure ridicole e inefficaci di ottobre.

3) i criteri adottati, i cosiddetti 21 parametri che smentivano la realtà specifica delle situazioni, delle condizioni sanitarie di ogni regione, usavano algoritmi applicati però su datazioni superate o prescindendo da dati che andavano disaggregati (per esempio i decessi nelle Rsa).

4) La divisione in regioni che al loro interno hanno situazioni assai diverse: Milano non è Brescia, Firenze non è Grosseto, e il Gargano dista dal Salento estremo più di quanto disti da Roma. Più intelligente sarebbe stato circoscrivere le zone rosse già a fine ottobre alle aree più colpite, in particolare le grandi città; invece si è preferito adottare una gradualità che ha fatto ulteriormente circolare il virus. E si è adottato il modello regionale come se la malattia rispettasse il titolo V della Costituzione (sciagurato).

Detto questo, torno sui dati di mortalità che sono il vero indice tragico della situazione, insieme all’impossibilità del sistema sanitario di reggere l’urto dei ricoveri, non disponendo nemmeno di quella fascia di compensazione che è la medicina territoriale, la medicina di base, la cura a casa.

lo sguardo storico e demografico sull’Italia in generale

Come leggere i circa 60 mila morti con cui chiuderemo il corrente (e fetente) anno? Dal punto di vista affettivo e personale, mettendoci nei panni di cittadini particolarmente colpiti (Bergamo e Brescia nella prima ondata, Milano, Varese e Monza nella seconda, solo per restare in Lombardia) è una tragedia devastante. La quantità di decessi, l’impossibilità di accompagnarli nei momenti estremi, il sospetto che si sia fatta in extremis una cernita, le colonne militari che trasportavano bare, il dolore dei famigliari non possono essere incasellati in un dato statistico. Non hanno cifra.

Diverso è invece lo sguardo storico e demografico sull’Italia in generale. Negli ultimi dieci anni il numero dei deceduti in Italia ha oscillato tra i 600 e i 649 mila. Alla fine di quest’anno non si discosterà molto da quei dati, considerato che la mortalità attribuita al covid compenserà la diminuzione presumibile di mortalità per altre cause. In ogni caso, il virus riguarderà il dieci per cento dei decessi in totale. Troppi? Pochi? Non esprimo giudizi, dico solo che così stanno le cose.

Le misure restrittive e la segregazione di intere popolazioni rispondono a una logica implicita: si chiede a mille abitanti di rinunciare a una quota di vita, di libertà, di benessere per salvare la vita al milleunesimo abitante. Non abbiamo termini di paragone con una ipotetica scelta inversa, lasciare tutto alla responsabilità individuale e non fermare nulla. Alla fine, oltre i dati di mortalità o meno, la questione cruciale resta quella ospedaliera, la saturazione e l’impossibilità di controllare la malattia. E sul piano personale di massa resta il nodo da cui siamo partiti. La novida.

MV, La Verità

 

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