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IL NUOVO DELITTO DI FEMMINICIDIO TRA MASSIMO DELLA PENA, DETERRENZA E PREVENZIONE

di Danilo Di Stefano
15 Dicembre 2025
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IL NUOVO DELITTO DI FEMMINICIDIO TRA MASSIMO DELLA PENA, DETERRENZA E PREVENZIONE

Dopo un femminicidio, le ricostruzioni arrivano sempre con un ritardo irreparabile. C’è quasi sempre
un “prima” che, riletto a posteriori, appare pieno di segnali: discussioni che aumentano di intensità,
controlli che diventano abitudine, amicizie che spariscono, telefoni passati al setaccio, scuse ripetute
fino a sembrare normali.

E poi ci sono frasi che si sentono raccontare spesso, perché appartengono a un copione che si ripete più di quanto si voglia ammettere: parole che suonano come ricatto emotivo, come possesso travestito da amore, come minaccia mascherata da disperazione

È da qui che nasce la domanda che attraversa il dibattito pubblico e politico: se la pena è più alta, ildelitto diminuisce?

La deterrenza, in teoria, si fonda su questo: rendere il costo del crimine così elevato da scoraggiare chi sta per compierlo. Il legislatore, con la Legge 2 dicembre 2025, n. 181 sceglie la
risposta più severa disponibile, introducendo nel Codice penale l’art. 577-bis sul femminicidio e prevedendo l’ergastolo.

Ma la tutela concreta di una donna non si misura solo nella forza simbolica di una pena massima

Simisura, soprattutto, nella capacità di intercettare la violenza quando non è ancora diventata omicidio.

Perché chi agisce con violenza, molto spesso, non ragiona come un giurista: non valuta commi, non fa calcoli sul trattamento sanzionatorio, non pesa attenuanti e benefici

Ragiona con una logica distorta di controllo, dominio, rivalsa. Se percepisce che nulla lo ferma — che l’ambiente minimizza, che le risposte sono lente, che le violazioni restano senza conseguenze immediate — la minaccia della pena resta astratta, lontana, quasi fuori dalla sua mappa mentale.

L’iter della Legge 181/2025 merita un cenno perché racconta un dato politico non banale, spesso raro: il Parlamento ha scelto di muoversi insieme su un tema che lacera la società. Il disegno di legge (A.S.
1433) viene presentato il 31 marzo 2025, approvato dal Senato il 23 luglio e dalla Camera in via definitiva il 25 novembre

La pubblicazione in Gazzetta Ufficiale è del 2 dicembre e l’entrata in vigore del 17
dicembre 2025. È una scansione che dice: la questione non è stata trattata come bandiera di parte da maggioranza e opposizione, ma come terreno su cui dare una risposta comune.

Il messaggio che la legge afferma è netto: quando l’uccisione di una donna è legata a odio, discriminazione, prevaricazione, possesso, controllo o dominio — o alla “punizione” per aver rifiutato o interrotto una relazione, o per aver rivendicato libertà — non siamo davanti a un omicidio indistinto

Siamo davanti a una forma specifica di violenza estrema, con una radice culturale e relazionale
riconoscibile. La scelta di tipizzarla e nominarla serve anche a questo: a togliere ambiguità, a chiamare
le cose con il loro nome.
Sarebbe riduttivo pensare che la Legge 181/2025 si esaurisca nell’art. 577-bis. Il disegno complessivo è più largo e prova a incidere su diversi snodi, proprio perché il femminicidio non è un “evento isolato”:
spesso è il punto finale di una traiettoria.

Riassuntivamente – senza scendere troppo nel dettaglio tecnico-giuridico rinvenibile sia dal testo normativo pubblicato sulla G.U. sia in altre fonti di dettaglio – oltre all’introduzione del nuovo delitto, la legge irrigidisce il trattamento sanzionatorio e allarga l’attenzione anche ai reati che, nella pratica, costituiscono spesso la cornice dell’escalation

Vengono rafforzati meccanismi aggravatori collegati
alla matrice di genere e intervengono previsioni che puntano a rendere meno eludibile la risposta punitiva nei contesti di violenza domestica. In questo quadro si colloca anche la previsione di confisca
collegata ai maltrattamenti, che segnala una scelta chiara: colpire anche il “vantaggio” e la disponibilità di mezzi che, talvolta, alimentano il potere di ricatto dell’autore.

La riforma, poi, spinge sul lato che troppo spesso fa la differenza tra protezione e abbandono: la posizione della persona offesa. Rafforza obblighi di informazione e comunicazione, ritocca disposizioni
che riguardano passaggi delicati (anche quando l’imputato chiede riti alternativi come il patteggiamento), e interviene su alcuni ingranaggi procedurali che incidono, direttamente o indirettamente, su tempi, strumenti e misure cautelari. Tradotto: l’idea è ridurre zone d’ombra e
garantire che la vittima non resti “l’ultima a sapere” proprio mentre la sua sicurezza dipende dall’essere aggiornata, ascoltata, protetta.

C’è poi l’aggiornamento dell’ordinamento penitenziario per i casi più gravi, con riferimenti al femminicidio in materia di obblighi informativi e benefici: una scelta coerente con l’impostazione
complessiva, che mira a trattare il fenomeno come area di massima allerta anche nelle fasi successive
alla condanna

Infine, la legge contiene anche un asse di prevenzione e tutele che non va letto come contorno: possibilità per le donne vittime di violenza di genere di accedere al patrocinio a spese dello Stato;
relazione annuale al Parlamento sull’applicazione; formazione di magistrati e professionisti sanitari;
campagne e linee guida per contesti di rischio; attenzione agli orfani; e un punto particolarmente significativo sul piano sociale: la possibilità, per le vittime minorenni dai 14 anni, di accedere ai centri antiviolenza per informazioni e orientamento senza l’autorizzazione preventiva dei genitori.

È un segnale: la protezione non può attendere che qualcuno “autorizzi” l’ascolto quando l’urgenza è la sicurezza. Chi ascolta le vittime — nei percorsi di aiuto, nelle sommarie informazioni, nelle denunce, nei colloqui informali — sente ripetersi un dato: la violenza non si presenta subito come violenza “da manuale”

Si presenta come controllo spacciato per premura, come gelosia trasformata in interrogatorio, come isolamento imposto a piccole dosi, come denaro centellinato per legare, come colpevolizzazione
sistematica per far dubitare la donna di sé.

Non è raro che le donne, all’inizio, descrivano queincomportamenti con parole che sembrano attenuare: “è fatto così”, “è un momento”, “poi gli passa”.

In realtà, spesso, è una dinamica che si consolida

C’è un passaggio che ricorre con drammatica precisione: quando la donna tenta la vera separazione,
quando cambia casa, quando si rivolge a un avvocato o a un centro antiviolenza, quando ricomincia a respirare. È in quel tratto che il rischio può salire rapidamente, perché l’autore vive la perdita di controllo come una sconfitta intollerabile. E se la sua identità è costruita sul possesso, la libertà
dell’altra diventa, nella sua mente, un affronto da “correggere”.

I familiari delle vittime, quasi sempre, raccontano due tempi: il tempo della vita quotidiana e il tempo della scoperta. Nel secondo, tutto assume un significato diverso: un silenzio, un messaggio cancellato, un’assenza a una cena, una scusa ripetuta, un cambio di abitudini

A volte emerge un dolore aggiuntivo:
la sensazione di non aver saputo leggere i segnali, o di averli letti ma di non aver avuto gli strumenti — culturali, psicologici, pratici — per intervenire. Non si tratta di colpe distribuibili; si tratta di un dato reale: la violenza prospera nelle intercapedini, nei non detti, nelle minimizzazioni, nell’idea che “in
fondo sono fatti loro”.

Ed è qui che la domanda sulla deterrenza si sposta dal “dopo” al “prima”. Perché l’ultimo atto lo punisci: se l’autore, a sua volta, non si toglie la vita; ma la catena di atti che lo precede, se non viene spezzata, porta spesso sempre nello stesso punto

Come insegna l’esperienza operativa, la protezione non è uno slogan, è una sequenza di decisioni tempestive. Chi lavora sul campo vede una regola dura: nei reati di violenza domestica e di genere, il tempo non è una variabile neutra. È la differenza tra una tutela efficace e un fallimento.

L’ordinamento,già con il Codice Rosso, aveva provato a comprimere i tempi; la Legge181/2025 insiste nella stessa
direzione, ma aggiunge e rafforza strumenti e doveri di sistema.

La realtà operativa, però, dice che nessuna norma è “automatica”. Funziona se chi la applica compie, senza esitazioni, una serie di scelte coerenti: prendere sul serio i segnali che spesso vengono ridotti a “problemi di coppia”; valutare il rischio con occhio clinico e investigativo, non con l’idea consolatoria che “si calmerà”; rendere effettive le misure, perché una misura ignorata o violata senza risposta immediata comunica all’autore l’esatto contrario di ciò che dovrebbe comunicare; costruire una rete vera tra Procure, polizia giudiziaria, servizi sociali e sanitari, centri antiviolenza e circuito civile, perché
la vittima spesso vive contemporaneamente un conflitto familiare formalizzato e un pericolo concreto informale

Se quei canali non parlano, la protezione diventa a tratti, e una protezione “a tratti” è spesso una protezione insufficiente.

L’ergastolo, in questo contesto, ha un valore preciso: fissa un confine morale e giuridico, afferma che la società considera quel crimine tra i più gravi in assoluto e rende più severa e più coerente la rispostabquando il delitto è compiuto.

La pena massima come confine, la prevenzione come salvezza. È giusto.
Ma sarebbe un errore pensare che basti.
La Legge 181/2025, letta bene, non chiede solo severità: chiede attuazione

Chiede che le norme non
restino “belle sulla carta”. Chiede formazione, informazione alla persona offesa, procedure che
funzionino, centri che possano accogliere, servizi che sappiano leggere la violenza per ciò che è, e una
comunità che non si giri dall’altra parte.

Perché la verità è semplice e scomoda: la pena interviene dopo. La tutela, quella che salva una vita, si gioca quando la violenza è ancora un crescendo di segnali, quando una donna sta cercando un varco, quando qualcuno sta decidendo se chiamare, se ascoltare, se credere, se intervenire subito

È lì chedobbiamo imparare a essere presenti, rapidi, coordinati. È lì che lo Stato, le istituzioni e la società
possono davvero fare la differenza.

*Responsabile del Dipartimento Sicurezza e Legalità di Fratelli d’Italia Provinciale Firenze, già
Commissario Capo della Polizia di Stato

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Tags: DONNEFEMMINICIDIOIN EVIDENZALEGGEOMICIDIO
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