Il Lussemburgo difende il suo paradiso

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Il piccolo Lussemburgo è una grande eccezione: mentre le elezioni del parlamento europeo di maggio sono viste in tutto il continente come una lotta tra euroscettici e euroconvinti, nel granducato l’Ue non crea grandi divisioni. Qui i maggiori partiti sono tutti sostenitori di un’Unione forte e movimenti estremisti non ce ne sono. In nessun altro paese europeo l’Ue gode di un simile consenso. Per i lussemburghesi le elezioni europee non sono un campo di battaglia in cui si gioca il futuro del continente ma l’esercizio di un dovere mirato a eleggere sei parlamentari, meno dell’1 per cento dei seggi del parlamento europeo.

Che si parli di integrazione europea, di politica estera comune o di solidarietà nei confronti dei migranti, questo stato fondatore dell’Ue sostiene in ogni caso un maggiore sviluppo del progetto europeo. Ma c’è un ambito in cui, anche dopo le elezioni, i lussemburghesi continueranno probabilmente a essere meno entusiasti nei confronti dell’Europa: le politiche fiscali. In questo terreno, lo stato di 600mila abitanti che viene spesso apostrofato come “paradiso fiscale” difende con decisione i propri interessi nazionali. La solidarietà europea ha i suoi limiti, anche per il Lussemburgo.

“Non possiamo darci delle regole che limitino la nostra competitività e di conseguenza anche la nostra crescita”, ha affermato il premier del Lussemburgo Xavier Bettel parlando del progetto della Commissione europea di introdurre la web tax. Gli sforzi dell’Ue per armonizzare i sistemi fiscali dei paesi si scontrano immancabilmente con la resistenza dei governi lussemburghesi. Un atteggiamento difensivo che si è palesato anche in occasione del dibattito sull’opportunità di abolire l’obbligo di unanimità per le decisioni riguardanti le questioni fiscali dell’Ue. “Non con noi”, risponde con cortesia ma irremovibilità, il Lussemburgo.

L’immagine del piccolo alunno modello europeo è stata compromessa dallo scandalo LuxLeaks.

Almeno a partire dall’inchiesta LuxLeaks del 2014, tutti sono a conoscenza dei “piccoli sporchi segreti” del Lussemburgo. L’immagine del piccolo alunno modello europeo è stata compromessa dallo scandalo, anche se da allora qualcosa è cambiato. Il Lussemburgo ha rinunciato al segreto bancario, si è aperto al dibattito internazionale e ha abbandonato alcuni eccessi nell’elusione fiscale che da decenni erano prassi comune di privati e aziende. Tuttavia, la scomoda verità è che ancora oggi in Lussemburgo molte imprese e società di comodo possono sottrarsi alla tassazione dei loro profitti.

Negli ultimi cinque anni la situazione è stata al limite del paradossale: nel 2014 è stato eletto presidente della Commissione europea proprio quel politico che più di tutti aveva costruito e incarnato il modello economico del Lussemburgo: Jean-Claude Juncker. Ed è stata la Commissione guidata da Juncker che, non senza risultati, ha insistito per combattere le oasi fiscali europee. In altri campi, però, il lussemburghese al vertice dell’esecutivo europeo ha avuto meno incisività.

Se il Lussemburgo è così eccezionale nel panorama politico europeo è anche perché questo piccolo stato, dal punto di vista economico e sociale, non ha praticamente eguali. Grazie alla sua crescita come centro finanziario, dagli anni ottanta il pil del paese è più che decuplicato. Fino alla crisi finanziaria, l’economia lussemburghese cresceva in media più del 5 per cento all’anno. Il pil pro capite, oltre 90mila euro, è quasi il triplo rispetto alla media europea, dieci volte più alto di quello della Bulgaria, fanalino di coda dell’Ue. Anche il livello dello stato sociale non teme paragoni in tutta Europa. Se qui finora i partiti populisti non hanno attecchito è anche per queste ragioni, oltre a un ben radicato multiculturalismo.

Il benessere del Lussemburgo è strettamente legato alla sua apertura economica e al suo dinamismo. O alle sue “politiche fiscali aggressive”, come le ha definite la Commissione europea all’inizio dell’anno. I rimproveri ricorrenti contrastano con l’immagine dello “studente modello”, del “costruttore di ponti” e dell’“onesto agente di cambio”, con cui i governi del Lussemburgo sono soliti ritrarsi. Ma alla fine rafforzano lo straordinario consenso dei lussemburghesi per la politica europea del paese.

D’altra parte il tema dei paradisi fiscali perde gradualmente di attualità. Rispetto alle crisi ormai quasi permanenti su Brexit, migranti e accordi commerciali, la richiesta di una maggiore giustizia fiscale nell’Ue finisce in secondo piano. Se il governo del Lussemburgo continuerà ad avere un ruolo positivo in molti ambiti politici europei, c’è da aspettarsi che questa situazione non cambierà troppo in fretta nemmeno dopo le elezioni e la formazione di una nuova Commissione.

Inoltre il contesto economico globale sta cambiando. Le principali economie dell’Europa hanno ripreso a crescere, ma in molti luoghi le conseguenze della crisi finanziaria sono ancora piuttosto evidenti. I lussemburghesi non amano sentire la teoria secondo la quale esistono cause più profonde per le disuguaglianze sociali all’interno dei paesi e tra gli stati membri dell’Ue. E anche le divisioni politiche causate dall’avanzata del populismo e dal ritorno del pensiero di estrema destra vengono osservate da qui con interesse ma a distanza di sicurezza. Eppure per il Lussemburgo gli sviluppi dell’Ue non sono affatto indifferenti. Nessun’altra economia è altrettanto dipendente da un’Unione forte con un solido mercato interno.

“Se il paese sta bene, la gente sta bene” è il motto del governo di coalizione di liberali, socialdemocratici e verdi rieletto lo scorso anno. Da allora la politica continua allegramente a ridistribuire i frutti del modello del Lussemburgo. Ma pure i lussemburghesi sanno che il loro modello di sviluppo ha un rovescio della medaglia. Che la tanto lodata solidarietà europea si fonda su una spiccata selettività. Che non a tutti le cose possono andare bene come a loro. Che il paradiso (fiscale) nel cuore d’Europa alla lunga può prosperare solo a spese degli altri.
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