Il Codice Civile è ancora quello del 1942, è ora di cambiare

codice civile

Il 21 aprile 1942 entrava in vigore in Italia il Codice Civile che Vittorio Emanuele III aveva preannunciato nel 1939 – nel discorso di apertura della XXX legislatura davanti alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni.  Nato con intento fascista, recava norme a sfondo razziale abrogate in seguito.  Il codice tutt’oggi valido comprende norme di diritto civile insieme a norme di diritto commerciale. Caratteristica unica tra i codici del tempo. Il testo sostituì il codice civile del 1865 e il codice di commercio del 1882. La riforma si rese necessaria ed urgente per aderire al nuovo assetto dei rapporti sociali dopo la Prima guerra mondiale.

I lavori cominciarono nel 1923 con una legge di delega al Governo e la commissione reale istituita a tale scopo lavorò fino al 1937. Parallelamente vi fu un progetto, poi abortito, per normare unitariamente la parte del diritto commerciale tra Italia e Francia.  Una parte del codice entrò in vigore nel 1939, una seconda nel 1940.  In seguito, la volontà di disciplinare il diritto di proprietà unitamente al diritto di impresa portò alla formazione di un unico testo ricomprendente il diritto civile e quello commerciale.  Nacque così il lavoro in sei libri della redazione finale (Primo libro: Delle persone e della famiglia; secondo libro: Delle successioni; terzo libro: Della proprietà; quarto libro: Delle obbligazioni; quinto libro: Del lavoro; sesto libro: Della tutela dei diritti).

Codice

Il Codice, grazie alla matrice liberale e borghese dei suoi estensori risentì solo superficialmente dell’influenza fascista e per questo è restato in vigore anche dopo la caduta del regime e il passaggio democratico. Alla caduta del fascismo viene soppresso l’ordinamento corporativo, fonte di diritto di cui alla prima disposizione preliminare del codice civile. Il codice comunque restò intatto fino al 1° gennaio 1948. Fino all’entrata in vigore della Costituzione che formula i diritti inviolabili dell’uomo. Diritti inviolabili anche dallo Stato. E li pone al centro dell’ordinamento.  Una grande rivoluzione giuridica che ha messo in discussione l’impianto stesso del codice, che però per volontà del legislatore continua a normare le vite e i rapporti degli italiani.

Le istanze di cambiamento palesatesi nel tempo, anche per la divergenza degli obbiettivi perseguiti non si sono concretizzate, e il testo rimane tuttora in vigore seppure con cambiamenti ed integrazioni, attraverso leggi speciali. Il ragionamento alla base è che Le norme costituzionali sono prevalentemente dei principi programmatici. Il legislatore ha l’onere di attuarli attraverso nuove norme. In questa ottica la Consulta ha più volte limato il codice abrogando singoli articoli. Vi sono state anche delle riforme parziali che sono intervenute su specifiche materie.

l’azione riformatrice

Per esempio, le norme del lavoro sono state trattate con legislazione speciale. Stessa sorte toccata al diritto delle assicurazioni e i diritti dei consumatori. Le norme di diritto commerciale invece sono sempre rimaste all’interno del codice e riformate nel corso degli anni.  Il settore dove più profonda è stata l’azione riformatrice è stato il diritto di famiglia. Con la riforma del 1975, nata sull’onda del fallito referendum abrogativo del divorzio.

A prescindere da queste riforme la maggior parte del codice è stata refrattaria a modifiche innovatrici. Spesse volte, inoltre, il Giudice si è sostituito al Legislatore con esempi non sempre validi definiti di giurisprudenza creativa. Sono state create norme non scritte al di fuori della legge. Complice un Parlamento a volte distratto a volte lento a intercettare i moti e i bisogni della società. Non possiamo chiedere certezza del diritto ad un codice oramai fuori del tempo, prodotto da un regime illiberale, costituzionalizzato a fatica. Nato nel secolo scorso non è in grado di normare adeguatamente fenomeni attuali con un impianto vecchio di ottanta anni.

 

 

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