Il Campo Largo non regge alla prova del governo

Il Campo Largo non regge alla prova del governo

Il Campo Largo viene raccontato come l’unica alternativa possibile alla destra. In realtà è soprattutto una costruzione elettorale difensiva, non un progetto di governo. Funziona, forse, come argine. Non regge come proposta politica coerente. E la ragione è semplice: nasce su contraddizioni che oggi non vengono risolte, ma solo rinviate.

Il Partito Democratico resta un partito di sistema, europeista e atlantista, chiamato a garantire affidabilità istituzionale. L’elettorato che il Campo Largo intercetta, invece, è in larga parte pacifista, massimalista, diffidente verso la NATO e contrario all’invio di armi all’Ucraina. Finché si resta all’opposizione, questa frattura può essere occultata. Ma l’idea di portare Elly Schlein a Palazzo Chigi la rende immediatamente evidente.

Se la guerra in Ucraina dovesse continuare, una presidente del Consiglio sostenuta da Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra potrebbe realisticamente difendere in Parlamento il sostegno militare a Kiev? È difficile sostenerlo. La posizione di Schlein è coerente con la storia del PD, ma è politicamente impopolare nel perimetro del Campo Largo. Paradossalmente, solo la fine del conflitto eviterebbe una crisi immediata tra la leadership e la sua base potenziale.

A questo si aggiunge il nodo irrisolto della leadership. Il centrodestra ha un criterio chiaro: il partito che prende più voti esprime il premier. Nel centrosinistra questo meccanismo non esiste. La competizione tra Elly Schlein e Giuseppe Conte resta sospesa, senza una regola condivisa. I sondaggi mostrano un equilibrio instabile, non una leadership riconosciuta. E un’alleanza senza capo non vince.

I numeri, del resto, sono impietosi. Con qualsiasi legge elettorale oggi in discussione, il Campo Largo non risulta competitivo. L’unico dato politicamente rilevante è il gradimento di figure esterne ai giochi romani, come la sindaca di Genova Silvia Salis, non distante da quello dei leader nazionali. Un segnale che non indica una soluzione, ma certifica una crisi di classe dirigente.

Dentro il PD tutto questo è chiaro, soprattutto all’area riformista. Il rischio che iniziative come il referendum sulla giustizia si trasformino in un boomerang politico è reale. Ma il vero nodo è un altro: il controllo delle liste. In un Parlamento composto da nominati da oltre vent’anni, il potere delle segreterie è totale. E quando la penna sarà nelle mani di Elly Schlein, il problema non sarà solo politico, ma interno al partito.

L’esperienza di Eugenio Giani in Toscana, costretto a subire scelte imposte anche in una delle ultime regioni riformiste, è un precedente eloquente. Una volta marginalizzata la classe dirigente riformista, anche l’opposizione interna diventa irrilevante. È già accaduto nel Movimento 5 Stelle ai tempi di Conte.

Il Campo Largo, oggi, non è una coalizione pronta a governare. È un equilibrio precario che vive di ambiguità. E in politica le ambiguità possono funzionare in campagna elettorale, ma raramente sopravvivono alla prova del governo.