Ieri primo stop alle auto elettriche in UE

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Ieri primo stop alle auto elettriche in UE

Dal “Green Deal” al “Green Illusion”: l’Europa scopre che i dogmi costano cari

Dopo anni di proclami, target irraggiungibili e date scolpite nel marmo, l’Unione Europea sembra avviarsi verso una silenziosa ma decisa inversione di rotta.

La presidente Ursula von der Leyen, fino a ieri paladina del Green Deal, ha iniziato a ricalibrare la narrazione: niente più decarbonizzazione al 100% entro il 2040 e, soprattutto, la tanto discussa messa al bando delle auto termiche e ibride dal 2035 potrebbe presto trasformarsi in un ricordo

Bruxelles, almeno nelle intenzioni, si avvia verso la cosiddetta “neutralità tecnologica”, lasciando intravedere margini di manovra per diverse soluzioni industriali.

Non è un caso che la critica sia arrivata anche da ambienti europeisti convinti: imporre agli automobilisti una tecnologia unica, l’elettrico, con tempi draconiani e senza infrastrutture adeguate, si è rivelata una scelta più ideologica che realistica. I dati lo confermano.

Nel 2024, soltanto il 20% delle nuove auto vendute in Europa era elettrico, una quota lontana dalle ambizioni di Bruxelles, mentre in Cina la percentuale ha già superato il 45%, dove peraltro le auto termiche sono iper tassate dal partito comunista cinese per evitarne la diffusione ma non vietarne la vendita e in questo molto più lungimirante e liberale dell’Europa, disincentivazione cinese che nasceva dall’ esigenza di spostare l’inquinamento dei veicoli dalle città alle centrali elettriche in massima parte a carbone o idrocarburi, quindi non per eliminare del tutto l’ inquinamento ma per spostarne gli effetti dalle città al trove, mentre negli Stati Uniti si è fermata intorno all’11%

In altre parole, mentre Pechino spinge sulle batterie e si prepara a dominare il mercato globale, l’Europa arranca, rischiando di restare intrappolata in una transizione non guidata dall’innovazione ma da imposizioni politiche.

Sul fronte ambientale il quadro non è meno contraddittorio

Le auto in circolazione nell’Unione contribuiscono alle emissioni globali per appena lo 0,9%. Al contrario, il settore dei trasporti nel suo complesso incide per circa un quarto delle emissioni totali dell’UE, e all’interno di questo comparto il trasporto su strada pesa oltre il 70%. A pesare di più sono però altri settori, come l’allevamento e il riscaldamento domestico, che da soli hanno un impatto ben superiore rispetto alle auto private.

Eppure Bruxelles aveva deciso di concentrare i propri sforzi principalmente sull’automotive, imponendo scadenze rigide e poco realistiche

A ciò si aggiunge l’evidente squilibrio geopolitico. Vietare i motori termici avrebbe favorito la Cina, non solo leader indiscussa nella produzione di batterie, ma anche nella filiera dell’acciaio. Qui il paradosso è lampante: mentre l’acciaieria di Taranto ha avviato la produzione con forni elettrici a basse emissioni, le auto elettriche cinesi continuano a essere costruite con acciaio altamente inquinante prodotto nei forni a carbone, tra i più impattanti al mondo.

Così l’Europa, nel nome della sostenibilità, rischiava di importare più inquinamento di quanto ne eliminasse

Sul piano sociale ed economico, i cittadini europei hanno mostrato di non credere fino in fondo all’elettrico. Le criticità restano evidenti: autonomia limitata, tempi di ricarica lunghi, infrastrutture insufficienti, reti elettriche nazionali ancora fragili e costi d’acquisto elevati.

Non va dimenticata l’obsolescenza delle batterie, che non solo riduce il valore residuo del veicolo ma solleva seri dubbi sulla reale sostenibilità complessiva.

Non sorprende, quindi, che le vendite non decollino come previsto

Nel primo trimestre del 2025, la crescita del mercato elettrico in Europa si è fermata a circa il 22-25% rispetto all’anno precedente, molto meno rispetto al +40% registrato in Cina nello stesso periodo.

In questo scenario, la retorica della precedente Commissione, a maggioranza progressista, appare oggi come un esercizio di volontarismo politico più vicino ai piani quinquennali sovietici che a un modello liberaldemocratico.

Indicare obiettivi di lungo periodo può avere senso, ma pretendere di imporre date rigide e percorsi unici ha generato un boomerang politico e industriale. Il de profundis del Green Deal, con il suo corredo di slogan e imposizioni, sembra quindi inevitabile.

Resta aperta la speranza che la prossima fase sia segnata da pragmatismo: obiettivi ambientali chiari, ma lasciando spazio alla libertà tecnologica e alla capacità delle imprese di innovare

Perché, come ricordava anni fa l’allora CEO di Toyota Akio Toyoda, “sarà il mercato a decidere il destino delle auto elettriche”. Una frase che oggi, alla luce dei numeri e delle difficoltà strutturali, suona quasi profetica.

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