I racconti di una tela nel deserto. Sulle orme di Ascari e Dubat

Arazzo

Arazzo

Osservo vecchie foto di un album di famiglia. Sono piccole, con i bordi irregolari, sbiadite e seppiate dal tempo. Tra esse vi è l’immagine di una tela dipinta, è adagiata sul deserto eritreo, reca la dizione “lavorato il 27.09.1934 disegno Muntaz Gherichidan XIX”. E’ un dono di congedo all’Ufficiale, mio nonno, sorridente Capitano degli Alpini.  E’ in Eritrea, nel corno d’Africa etiope, a comandare gli Ascari, di lì a poco ripeterà la esperienza con i Dubat. Negli anni della sua vecchiaia, avrà sempre modo di dire che quelli furono gli anni più belli della sua carriera, gli unici di cui parlava volentieri. Quante emozioni può evocare una vecchia tela in un deserto degli anni ’30 dipinta da un Muntaz, caporale Ascari del XIX Battaglione Eritreo,che troneggia in una sbiadita foto di famiglia? La guardo più di ottanta anni dopo, come ispirazione originale e bizzarra alla riflessione sui rapporti tra italiani e africani, tema quanto mai di attualità. Da sempre ritengo che recuperare la consapevolezza del vissuto comune di un popolo possa giovare all’esperienza attuale, scrivere di storia, in un paese “dimentico di sé”, come amava dire l’indimenticabile Indro Montanelli, forse per ipertrofia del suo passato, è percepito spesso come ostico ed a volte stantio. Ma chi non conosce la propria storia, le proprie radici, rischia di costruire sulla sabbia, più arida di quella eritrea: non rischia tanto di ripetere tale storia, come comunemente si dice, (sono convinto, invero in buona compagnia di Machiavelli e Vico, che essa si ripeta comunque, a prescindere dalla volontà o coscienza umana) ma chi la ignora finisce per subirla, colto di sorpresa da ciò che è già stato ed immancabilmente si ripeterà nella sostanza, pur in forme diverse, impreparato a parare le sue distorsioni o interpretazioni personali. Oggi è l’Africa che viene a trovare noi, oziose e strumentali appaiono le ricorrenti accuse al popolo italiano di razzismo: riflettendo sul nostro vissuto comune, la risposta è insita in quella vecchia foto di un’Africa che pare più un’altra dimensione, esistenziale più che geografica o cronologica. Umberto di Savoia, la Regina, Italo Balbo, e Truppe Coloniali, Ascari inquadrati con i loro rossi Fez, occhieggiano in un’unica immagine genuina. Quanta storia italiana, disegnata con rispetto ed orgoglio per mano di un africano che chiama l’Italia “forte e potente”. L’esperienza coloniale viene ormai tacciata dalla dominante vulgata come predatrice e irrispettosa delle culture indigene. Nulla di piu falso, come vedremo. Ma chi erano Ascari e Dubat? Che ruolo giocavano nella costruzione dell’Impero coloniale Italiano? Quali rapporti vi erano tra italiani e popolazioni locali? Quale attenzione veniva riposta ad usanze, tradizioni e credenze, pur nella rigidità della disciplina militare? In questo viaggio affascinante mi farò accompagnare dalle immagini e dagli “appunti di viaggio” di mio nonno, scritti poco dopo la sua esperienza coloniale, quali impressioni riportate nel suo andare attraverso il continente nero.   

Anche dopo il suo reimpatrio egli, appena prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale e dell’esperienza devastante che avrebbe vissuto in Russia, i suoi collaboratori indigeni delle truppe coloniali erano in contatto con lui, epistolare ovviamente: tra le sue carte ho rinvenuto una lettera di un Bulukbasci che gli scriveva in grafia elementare “tu che sei come mio padre, cerca di fare qualcosa perché il nostro salario non arriva da mesi“. Invero la storia italiana è destinata a ripetersi, come dicevo poc’anzi.

L’esperienza coloniale italiana era stata avviata ben prima dell’avvento del ventennio, ma l’entusiasmo per la nascita dell’Impero culminava in una propaganda che era realmente sentita nell’Italia dell’epoca, di simpatia verso quei popoli cui “si portava il progresso”, ma si era già inteso che senza l’aiuto dei locali tale intendimento sarebbe stato di fatto sterile ed inconcludente. Volendo contestualizzare, gli adolescenti nati a fine ottocento erano cresciuti con un’idea salgariana delle terre selvagge, dove lo stato di natura era assurto ad amore puro e vita serena ed avventurosa. Presso gli Istituti di formazione militari non si accennava a tutto ciò: si citavano Eritrea e un po’ la Libia, di Mogadiscio nella Somalia; si sapeva del caldo di Massaua, del difficile approdo nelle coste della Libia. Poco più.

La colonia rappresentava la vita avventurosa con lo sfondo delle madame europeizzate ed elevate a far vita comune con gli Ufficiali; vi si rifugiavano in massima parte misantropi, quelli a cui per ragioni varie scottava il terreno italiano sotto le estremità e finalmente quelli che avevano bisogno di redimersi o di rifarsi una vita. Quando in Libia divampò di nuovo nel ’26 la ribellione, quasi più nessuno volle andarvi ed allora gli ufficiali subalterni vennero mandati laggiù in massima parte d’autorità e fu probabilmente un bene, poiché gli Ufficiali preposti per la colonia dovevano avere un’ottima classificazione, Ufficiali insomma di provata capacità, che portavano nelle fila dei Battaglioni di colore l’impronta disciplinare e seria ai quali erano stati forgiati nell’esercito metropolitano.

Le truppe indigene dell’Eritrea fin dalla costituzione dei primi reparti di Basci Buzuk (letteralemente “teste sventate”), vennero incorporate nel Corpo Speciale d’Africa, che comprendeva tutte le Forze Armate presenti in Colonia, per essere poi inquadrate nel Regio esercito quale “parte integrante”, articolate in Battaglioni, con un Regio Decreto del 1889. Nasceva quindi il Regio Corpo Truppe Coloniali, articolato, appunto, in Battaglioni che non avevano bandiere di guerra ma Gagliardetti, con colori che li contraddistinguevano. Il Corpo Coloniale sarà insignito di una propria bandiera tricolore solo nel 1923. Il loro simbolo, a qualunque arma appartenessero – erano infatti inquadrati sia nel Regio Esercito, che nella Regia Marina che, successivamente nella Regia Aeronautica- era l’alto Fez chiamato Tarbusc, cui tenevano sopra ogni altro accessorio dell’uniforme, tanto da raccoglierlo e pulirlo prima di ogni altra cosa, benchè feriti e sanguinanti, come ricorda Ferdinando Martini nel suo volume del 1891 “sull’Affrica (sic) Italiana”.

Il termine Ascari significa semplicemente “soldato”, ma venne di fatto esteso a ricomprendere ogni componente delle truppe indigene: era prevista una gerarchia al suo interno già dalla costituzione, e fu oggetto di susseguenti varianti. Nel 1888 venne riformata ed uniformata dapprima dal Comandante del Comando Superiore della Colonia Eritrea Generale Baldissera e poi da una istruzione del 1904 (D.M. del 27/02/1904) che ricomprendeva i gradi di Nachil, Ascari anziano scelto, di Muntaz, sorta di caporale, Bulukbasci, Jusbasci, e fino al 1891 Bimbasci. Lo Jusbasci affiancava l’Ufficiale subalterno ed era fino al 1902 parificato come status a quello di Sottotenente, pur non essendo propriamente considerato un Ufficiale, poi venne soppresso in funzione del fatto che gli Ufficiali dovessero essere inequivocabilmente solo Italiani. Il BulukBasci (comandante del Buluk cioè plotone) era di fatto un moderno maresciallo Luogotenente, affiancava ai galloni e stellette simboli rituali e tradizionali del suo status di comandante e portavoce della truppa al comandante, quali il curbasc, lungo staffile di pelle di rinoceronte o ippopotamo che diveniva anche uno strumento di punizione dei sottoposti. Lo stesso Montanelli nella sua avventura africana quale Sottotenente di complemento (affermava con sarcasmo toscano, che dopo le fatiche universitarie aveva ben diritto ad una vacanza a spese dello Stato) riconosceva il carisma e la serietà di questi sottufficiali anziani e carismatici, descrivendone la figura come mai propensa ad urlare per dirimere le controversie all’interno del Buluk senza “mai sbagliare” al fine di difendere il prestigio del Governo Italiano. Chiosava dicendo che “il prestigio di uno Sciumbasci è incalcolabile”, benchè non elevato al grado di ufficiale, nessun Ascari poteva difatti esserlo, era  di provata fedeltà, disciplina e capacità.

Al Buluk-basci ed allo Scium-basci competeva il titolo di ‘Agà’ Signore ed a quest’ultimo era riconosciuto il  diritto al muletto e ad un Amari addetto alla sua persona e, in considerazione del fatto che avere un’arma era per loro la più grande ambizione, quando un vecchio Scium-basci si congedava, gli veniva dato in dono un moschetto od una pistola come il riconoscimento più grande della sua fedeltà e devozione.

Il suo prestigio era tale che non era raro che ad Ufficiali troppo esagitati e violenti nell’impartire gli ordini, gli Sciumbasci, durante l’Abiet (letteralmente “implorazione”), di fatto la sede ove potevano essere espressi rilievi e rimostranze, mostrassero insofferenza per i modi non rispettosi dell’onore dei locali e delle usanze africane. Si tramandano le flemmatiche parole di uno Sciumbasci  ad un Ufficiale subordinato : “Se tu stare Comandante, non gridare. Se tu gridare, non stare Comandante”.

Questo è emblematico di come l’attenzione, il rispetto e, in fin dei conti, l’ammirazione malcelata per questi combattenti portavano ad un’integrazione ed adattamento delle regole militari alla cultura locale, fino ad accordare alle truppe coloniali situazioni di scelta, quasi “privilegi”, che spesso i soldati italiani in Patria nemmeno sognavano lontanamente. 

Ma di questo, se vorrete, parleremo nel nostro prossimo incontro.

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