“I MITI DEL SIONISMO”: UN NUOVO LIBRO PER CAPIRE LA QUESTIONE ISRAELO-PALESTINESE

“I MITI DEL SIONISMO”: UN NUOVO LIBRO PER CAPIRE LA QUESTIONE ISRAELO-PALESTINESE

È uscito in questi giorni il nuovo libro del professor Claudio Mutti dal titolo “I miti del sionismo” (Edizioni di Ar). Il testo trae origine da una conferenza organizzata dal sodalizio “Identità e Territorio” a Latina un anno fa, esattamente il 23 novembre del 2024.

Esso si inserisce all’interno di un contesto storico caratterizzato da preconcetti ideologici finalizzati a giustificare lo status quo e dalla presenza di una rete di protezione di cui gode Israele ai più alti livelli politici, economici e militari

Nel testo si affrontano temi complessi con precisione storica concentrandosi in particolar modo sulla decostruzione di stereotipi che stanno alla base del sionismo. L’autore individua le ragioni storiche e ideologiche usate per giustificare la fondazione di uno stato ebraico in Palestina e analizza le origini del sionismo e le varie implicazioni politiche che ne derivano.

Tutto ciò consente anche una più profonda comprensione delle questioni legate all’attuale conflitto israelo-palestinese al fine di riconoscerne le cause primarie in quanto è evidente che il “7 ottobre” non rappresenta che un momento all’interno di un contesto più ampio e un casus belli a cui è seguita una reazione del tutto sproporzionata

Nel dibattito pubblico italiano, e non solo, certe narrazioni si presentano come dati acquisiti ma, a ben vedere, le cose stanno altrimenti. Ovviamente la questione è complessa e richiede la massima prudenza anche in virtù dei deboli equilibri esistenti e dei rischi di strumentalizzazioni. Per questo è necessaria una corretta ricostruzione storica degli eventi.

Il processo di insediamento sionista si presenta come una forma di neocolonialismo, un’occupazione del suolo su cui sorgevano i villaggi palestinesi , sulla requisizione con la forza delle loro terre e sulla deportazione dei loro abitanti

Israele ha dunque rimpiazzato una popolazione pre-esistente, quella palestinese appunto, con una nuova di provenienza in gran parte europea.
La Risoluzione ONU 181 del novembre 1947 venne rifiutata dai dirigenti palestinesi in quanto decisamente squilibrata. Infatti assegnava il 56% della Palestina mandataria (e precisamente le terre più fertili) a una comunità ebraica che costituiva solo un terzo della popolazione ed era proprietaria di circa il 6% delle terre.

Lo Stato arabo sarebbe stato frammentato e con scarso accesso diretto a porti e vie commerciali. La proposta fu sottoposta al plenum dell’ONU il 29 novembre 1947

L’ONU contava allora 56 paesi. La votazione fu rinviata ben due volte. Erano necessari i 2/ 3 dei consensi, ovvero 37 voti. I sì furono 33, i no 13 e gli astenuti 10. Per l’occasione non si contarono gli astenuti e contrariamente a quanto preannunciato Haiti, Liberia e Filippine decisero all’ultimo momento di votare sì a seguito di pressioni da parte degli USA.
Poco si parla di un altro piano elaborato dall’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) che prevedeva uno Stato unico federale, con ampia autonomia per entrambe le comunità, capitale condivisa a Gerusalemme, e immigrazione ebraica limitata e regolata per non stravolgere l’equilibrio demografico ed economico.

Piano rifiutato dai dirigenti sionisti

La politica espansionistica di Israele nel corso degli anni si presenta come la continuazione della pulizia etnica condotta in maniera massiccia dal dicembre del 1947 fino al 1949. Dal 1967 il governo di Tel Aviv tratta i territori  della Cisgiordania e del Golan – quest’ ultimo illegalmente annesso nel 1981 – come zone di popolamento coloniale.

L’occupazione in corso dal 1967 non è mai stata considerata come temporanea da parte dei vari governi israeliani nonostante decine di risoluzioni dell’Onu che condannano le sue azioni in diversi ambiti: politica degli insediamenti nei territori palestinesi, inclusa Gerusalemme Est; apartheid; violenze e operazioni militari come la distruzione di abitazioni civili a Rafah nel 2004 e il massiccio di Hebron nel 1994; l’occupazione illegale del territorio palestinese; deportazione di civili palestinesi; impedimenti al ritorno dei rifugiati palestinesi ecc..).

Risoluzioni che  provengono sia dal Consiglio di Sicurezza che dall’Assemblea Generale e in molti casi sono rimaste inapplicate (l’Iraq e la Jugoslavia furono attaccate dagli Usa per aver violato una sola risoluzione dimostrando ancora una volta l’esistenza di una politica dei due peso e delle due misure)

Nel corso degli anni le cose non sono certo migliorate. Israele ha continuato la sua espansione e nessuna vera offerta di pace e libertà è stata proposta al popolo palestinese.

Il piano Barak (Camp David, 2000) avrebbe determinato non la nascita di uno Stato palestinese ma un arcipelago di enclavi senza continuità territoriale, con Israele a controllare confini, risorse idriche e le vie di comunicazione compreso lo spazio aereo.

Lo stesso Sharon nel 2005 non fece passi rilevanti verso la pace e la realizzazione dei due Stati ma un’ operazione politica e strategica per ridurre il costo politico e militare dell’occupazione di Gaza al fine di consolidare il controllo in Cisgiordania

Gaza restò di fatto sotto blocco terrestre, marittimo e aereo. Non si trattò di una restituzione, ma un cambio di modalità di controllo. Infine, il piano Olmert del 2008 benchè più generoso nelle concessioni, non cambiava di molto i termini del problema visto che restavano in mano israeliana le zone più fertili e strategiche, offrendo in cambio aree desertiche nel Negev.

Tra l’altro Olmert era già politicamente alla fine della sua avventura politica travolto da scandali e dunque anche un accordo firmato non avrebbe avuto garanzie di attuazione.

Tra l’altro è interessante evidenziare come l’attenzione dei media e di parte dell’opinione pubblica sia rivolta esclusivamente al terrorismo islamico e non si ricordi che anche i sionisti, all’interno di uno scenario di guerra asimmetrica, sono ricorsi a tali metodi

Pensiamo all’ attentato al King David Hotel perpetrato lunedì 22 luglio 1946 da parte del gruppo paramilitare sionista Irgun contro il quartier generale amministrativo delle autorità britanniche nel mandato di Palestina in cui persero la vita 91 persone di varia nazionalità ed altre 46 vennero ferite.

È inoltre necessario rilevare come in Occidente non si sono accesi abbastanza i riflettori sui circa 1.700 palestinesi arrestati dopo il 7 ottobre senza accuse formali (tra cui operatori sanitari, insegnanti, giornalisti e 22 minorenni) o sullle frequenti violenze dei coloni israeliani anche a danni dei cristiani.

Come sappiamo Israele ha giustificato e giustifica il suo insediamento e la sua politica sulla base di “miti” che il presente libro riesce, grazie ad un accurato uso delle fonti, a smentire e desacralizzare

Ovviamente è necessario intendere il significato da attribuire al termine “mito”. Alla base delle grandi civiltà e della storia dei popoli vi è sempre un mito, inteso come idea forza o come un racconto sacro che produce un modello di orientamento di vita (mytos= parola).

Nel caso in questione si parla di mito come racconto o concetto suggestivo non corrispondente a verità, di presupposti che nonostante godano di credito e prestigio sono smentibili  per mezzo dell’analisi razionale e storica.

Presupposti sostenuti e alimentati dal mainstream al fine di giustificare una occupazione illegittima e una serie di crimini di guerra che l’ONU ha qualificato come “genocidio”

Miti che possono essere divisi in “miti teologici o religiosi” e “miti del xx secolo”.
I miti teologici sono il mito della “terra promessa”; il mito del “popolo eletto”, e il mito dello “sterminio sacro”. Quest’ultimo è contenuto nel libro di Giosuè secondo cui Jahvè avrebbe prescritto al successore di Mosè una politica di sterminio al momento della conquista della terra di Canaan.

L’autore evidenzia le fonti bibliche e la loro funzione didattica. Infatti, alcuni miti biblici, in particolar modo quello dello “sterminio sacro”, rischiano di essere interpretati come giustificazione per l’uso della violenza e della “purificazione etnica” e presi ad esempio per determinare certe linee di condotta militare.

Pensiamo allo sterminio compiuto all’interno dei villaggio palestinesi Deir Yassin e ‘Ayn Zaitum dove furono uccisi anche neonati

La tesi religiosa a fondamento del sionismo è quella per cui se ci si considera come il popolo della Bibbia, bisogna possedere tutte le terre bibliche.

Ma non è forse un’eresia trasformare la religione nello strumento di una politica e nel sacralizzarla? E non è curioso che in un Occidente laico e laicista sia proprio un testo religioso ad essere utilizzato dai sostenitori del sionismo come giustificazione di una certa politica espansionistica?

Assistiamo evidentemente ad una strumentalizzazione dei racconti biblici e dello sfruttamento di un passato mitico al fine di orientare l’avvenire

I “miti del XX secolo”, invece, sono: il mito dell’antifascismo sionista, il mito della “giustizia” di Norimberga, il mito dell’Olocausto, il mito di una “terra senza popolo per un popolo senza terra”.

Di questi miti, due in particolare vengono evidenziati dall’autore e meritano dunque un breve approfondimento. In primo luogo il “mito del ritorno” del popolo ebraico nella sua terra di origine. L’idea di un “ritorno” in Palestina viene presentata dai sostenitori dello Stato di Israele come un diritto naturale e divino, trascurando il fatto che la terra era abitata da altri popoli, che sono stati allontanati con la forza.

Tale Mito viene contestato dall’autore anche sulla base del fatto che gli ebrei askenaziti discendono dai Kazari convertiti all’ebraismo e dunque non sono semiti, a differenza degli arabi

Partendo da questa premessa viene meno il presunto diritto a tornare in una terra in cui i propri antenati non hanno vissuto. In secondo luogo il tema Olocausto. Qui si impongono in effetti alcune riflessioni a cui l’autore decide di non sottrarsi nonostante la delicatezza del tema. L’Olocausto non solo è divenuto l’unico evento di cui è impossibile approfondire la ricerca storica, a causa anche di leggi liberticide che tendono a sostituire i parlamenti e i tribunali agli storici, producendo una nuova teologia al servizio della religio holocaustica.

E questo già a partire dalla fine del Secondo conflitto mondiale e in particolare da quegli “accordi di Londra” che ritenevano il genocidio degli ebrei come una verità incontestabile e dunque non oggetto di dibattito al processo di Norimberga

Un dogma, quello relativo alla Shoah, che non può essere in alcun modo sottoposto a discussione critica. A prescindere da questi aspetti storiografici, il tema Olocausto applicato al conflitto israelo palestinese comporta tre problematiche in particolare. In primo luogo lo sfruttamento della memoria dell’Olocausto a fini di vantaggio politico ed economico, come spiegato dall’ebreo Norman Finkelstein in un suo libro dal titolo L’industria dell’Olocausto (Bur, 2000), e come mito di fondazione dello Stato di Israele e dunque come giustificazione all’occupazione delle terre di Palestina e della successiva organizzazione socio politica.

In secondo luogo diviene una trappola ideologica tesa a neutralizzare l’opinione pubblica e uno strumento di delegittimazione dell’avversario politico e culturale laddove ogni critica al governo Israeliano diviene sinonimo di antisemitismo (che è cosa diversa dall’antisionismo). Infine, poiché l’Olocausto è considerato “un evento unico nella storia” e dunque impareggiabile con ogni altro sterminio provoca la sottovalutazione di tutte le altre sofferenze precedenti (genocidio indiani o armeni ad esempio), attuali e future

E dunque anche la tragedia del popolo palestinese. Basti solo pensare che nel 2011 è stato approvato dalla Knesset, il parlamento monocamerale di Israele, un provvedimento che taglia i fondi agli istituti pubblici che organizzano eventu per commemorare la “Nakba”, di cui tra l’altro non vi è alcun riferimento nei libri di storia israeliani. L’ “’idealizzazione” della mitologia sionista  influisce pesantemente sull’opinione pubblica mondiale e sul destino del Medio Oriente.

Il volume di Claudio Mutti contiene una serie di informazioni necessarie ad avere una visione più profonda ed organica del sionismo e quindi della questione israelo-palestinese

Il grande merito di questo libro risiede nell’andare oltre le semplificazioni e i luoghi comuni ripetuti in modo ossessivo e accettati come “verità”aiutando il lettore alla comprensione di tematiche spesso sconosciute. Uno strumento culturale di spessore per resistere alla narrazione dominante.

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