Gori choc: “I morti a Bergamo sono quasi tre volte quelli ufficiali”

Gori: “Le bare di Bergamo sono solo la punta di un iceberg, i nostri morti sono quasi tre volte quelli ufficiali”

Intervista al sindaco di Bergamo, città-simbolo dell’emergenza Coronavirus in Italia: “Servono screening mirati. Almeno sui sintomatici e sui loro contatti. Bisognava proteggere di più medici e istituire a inizio marzo la zona rossa in Val Seriana. Quando sarà tutto finito dovremo trovare un modo degno per onorare tutti quelli che sono caduti”

Il Coronavirus a Bergamo, intervista al sindaco Giorgio Gori

Buongiorno Gori, siete, forse, la città più colpita d’Italia.
Lo siamo purtroppo, aldilà dei numeri che ascoltiamo al telegiornale, che rappresentano solo parzialmente la dimensione dell’epidemia e il dramma di tante famiglie.

Quale?
Il numero reale delle vittime è di oltre due volte e mezzo quello certificato ufficialmente.

È una affermazione clamorosa.
Purtroppo è la realtà.

Spieghiamo perché.
I dati sui contagiati che vengono diffusi quotidianamente dalla Regione e dalla Protezione Civile riguardano solo coloro che sono risultati positivi al tampone. E i tamponi in Lombardia si fanno solo a chi si presenta in ospedale con sintomi molto seri.

E secondo lei è un dato ingannevole?
Quella è solo la punta dell’iceberg. Ci sono decine di migliaia di persone positive, solo nella mia provincia, che non entrano nelle statistiche solo perché non viene fatto loro il tampone. Parlo di persone sintomatiche, poi ci sono gli asintomatici.

Voi però avete trovato un altro modo di stimare le vittime dell’emergenza? Abbiamo contato i decessi dei residenti in città dall’1 al 24 marzo, e abbiamo confrontato questo dato con la media dei decessi nello stesso periodo degli ultimi dieci anni. E quando lei fa questo raffronto cosa scopre? Emerge che il numero dei decessi di quest’anno dall’1 al 24 marzo è quattro volte e mezzo superiore alla media degli anni precedenti.

Incredibile.
Quest’anno ci sono stati 446 decessi, negli anni precedenti mediamente 98. Sono 348 in più. Per le statistiche ufficiali i decessi causati da Covid 19 sono “solo” 136: tantissimi, ma molti meno di quelli realmente avvenuti.

Quindi la differenza sono tutte vittime? Ma è un numero enorme.
Ci sono 212 decessi in più di quelli ufficialmente calcolati. Con i medesimi sintomi. E questo scarto non riguarda solo la città: si ritrova in tutti i comuni della provincia di Bergamo, in alcuni casi anche più vistoso.

Dentro questo numero, dunque, si nasconde un altro fenomeno di dimensioni enormi.
È la dimensione reale di questa tragedia. Centinaia di persone morte nelle loro case, o nelle RSA, senza che sia stato possibile anche solo diagnosticare loro la malattia.
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Se questi sono i caduti, significa che il contagio è ovunque.
Ne ho parlato con diversi esperti, tra cui mio fratello Andrea, che è un infettivologo. È possibile fare delle stime.

Quali?
A seconda del tasso di mortalità che si assume, gli esperti sostengono possa stare tra il 2% e l’1%, i contagiati in città potrebbero essere tra 17 e 35mila, la maggior parte dei quali fortunatamente con sintomi leggeri o con nessun sintomo. Nell’ipotesi di mortalità più bassa il virus avrebbe colpito già il 30% dell’intera popolazione di Bergamo.

Addirittura?
È difficile rendersi conto della presenza del virus quando si manifesta senza sintomi, ma ogni cittadino di Bergamo percepisce queste dimensioni: non c’è famiglia che non sia stata toccata, non c’è nessuno di noi che non debba preoccuparsi per un amico, un parente o un collega in gravi condizioni. Oltre ai tanti a casa con sintomi più leggeri. L’incidenza della malattia è molto, molto elevata.

Calcolando anche le forme più leggere e non censite.
Io avuto mal di gola per più di 15 giorni. Non avevo febbre ma forse era una manifestazione leggera del virus, chi può dirlo?

Non si riesce ancora oggi, nemmeno a Bergamo, a fare uno screening sui casi sensibili?

Penso che avrebbero dovuto prima, in forma molto più estesa.

Ad esempio a chi?
A tutti gli operatori sanitari in primis. E poi almeno a tutti i sintomatici e a tutti i loro familiari.

Anche adesso, per contenere il contagio?
Anche adesso, almeno per disporre le quarantene di chi va allontanato e proteggere chi va protetto. Mentre è tardi, secondo me, per usare i tamponi come strumento di mappatura, siamo purtroppo troppo avanti nella diffusione dell’epidemia.

Parlo a lungo con Giorgio Gori, ed ascoltarlo è come seguirlo in una anabasi, una lucida discesa agli inferi. Tuttavia, quando leggerete questa intervista non troverete un solo punto esclamativo: non ne usa mai, quando parla, neanche di fronte al dramma. È lo stile dell’uomo, una dote preziosa, in queste ore.

Tuttavia, chiunque lo ascolti, non può non restare impressionato dalla capacità di sintesi del sindaco di Bergamo. Numeri e dati a memoria, analisi e ipotesi, e una capacità utile a tutti: quella di studiare il caso Bergamo per trasformarlo in un caso di scuola utile a tutti. Prendete questa intervista e i suoi focus – dalla mascherine ai tamponi, dagli ospedali alle bare – come la prima indagine sull’emergenza ai tempi del Coronavirus.

Ripartiamo dai tamponi. Che idea si è fatto su questo tema degli esami limitati che si ripropone di continuo?
È una policy, ma non la condivido. L’idea di farne poche migliaia – peraltro cambiando tutti i giorni la dimensione del campione, senza alcuna significatività statistica – non ci dice nulla né sulla storia, né sull’evoluzione della malattia, né su chi quarantenare e quando. Mentre noi – oggi – dovremmo poter tracciare sia i casi sintomatici che tutte le relazioni più strette.

Nella vostra condizione attuale è essenziale questo ultimo aspetto.
Certo. Viceversa in altre regioni bisogna impostare le cose in altro modo, perché è ancora possibile circoscrivere e bloccare.

Ma chi è che ha dato questa direttiva in Lombardia?
Noi sindaci lo abbiamo chiesto al presidente Fontana.

E cosa ha risposto?
Che la Regione si attiene alle direttive dell’ISS e dell’OMS. Nella risposta che ha dato alla lettera degli 81 sindaci della provincia di Milano dice che la Regione si attiene alle disposizioni della circolare del Ministero della Salute del 22 febbraio.

Che effettivamente dice questo?
Dice di fare i tamponi ai soggetti sintomatici. Che è quello che chiediamo noi. Nessuno ha mai proposto di fare tampone di massa. E in ogni caso di circolare ministeriale ce n’è un’altra, del 20 marzo, ancora più chiara nel dire – gliela sto leggendo – che “è necessario identificare tutti gli individui che sono stati o possono essere stati a contatto con un caso confermato o probabile di Covid19”.

Quindi si dovrebbe cambiare la strategia?

Mi dico di sì. Leggo che il presidente Fontana ha annunciato che la Regione farà tamponi anche ai monosintomatici. Non capisco bene cosa voglia dire, posto che fino ad oggi non si facevano neppure ai plurisintomatici, né quanti si pensa di farne.

Immaginiamo che si riuscisse ad applicare la direttiva del 20 marzo, e fare più esami, trovare i laboratori, tracciare tutti i casi di cui lei parla. Cosa avremmo in più?
Si potrebbero gestire in modo molto più efficiente le quarantene, isolando una buona parte dei portatori del virus. Oggi purtroppo si interviene – quando è possibile farlo – troppo tardi.

Perché anche oggi, secondo lei il fattore tempo è decisivo.
L’altro ieri sono andato con il vescovo di Bergamo a rendere omaggio alle urne contenenti le ceneri di nostri concittadini cremati negli impianti di altre: erano 118, allineate sull’altare del famedio. E nella chiesa di Ognissanti, ordinate a terra, c’erano 94 bare. Non si può spiegare.

Lei la usa per darmi le proporzioni del dramma.
Sì, perché immagino che per chi non vive qui sia più difficile comprendere. Per questo mi affanno a dire che va trovato il modo per rafforzare gli interventi sul territorio. Per quanti miracoli si siano fatti per ampliare la capacità di cura negli ospedali, aggiungendo decine di letti di terapia intensiva, non si può aspettare che i malati si aggravino al punto da doverli portare in ospedale.

Perché è troppo tardi.
E perché servirebbero centinaia di posti in più, che non ci sono. Dobbiamo arrivare prima. L’ordine dei medici stima che nelle case e nelle RSA della provincia ci siano quattromila casi di polmonite in corso.

E chi li assiste?
Da alcuni giorni la Regione ha istituito le USCA – unità speciali di continuità assistenziale -, piccole squadre di medici e infermieri che vanno a casa dei pazienti, verificano la saturazione del sangue, il bisogno di ossigeno. È la strada giusta. Ma sa quante sono? Otto per tutta la provincia. Servono più medici, più infermieri e più dispositivi di protezione.

Per proteggere medici e infermieri.
Le dico solo che di 700 medici di medicina generale della provincia se ne sono ammalati 144. Andare a curare a domicilio casa è un altro rischio. Non bastano le mascherine. I medici delle USCA debbono proteggersi da capo a piedi, sembrano degli astronauti. Serve un’ora di preparazione per ogni visita. I tempi e i rischi si dilatano.

E poi, per chi è casa, c’è il tema delle bombole.
C’è un grande problema con l’ossigeno: servono più di duemila bombole di ossigeno al giorno. Ognuno cerca di dare una mano, anche nel contattare i fornitori che si conoscono. L’ATS ha fatto un buon piano ma preoccupa la prospettiva.

Perché?
I fornitori sono sollecitati ormai anche da altre province. C’è il rischio che non riescano a coprire tutto il fabbisogno.

Qui dove sta il problema?
Mi hanno spiegato che scarseggiano innanzitutto i contenitori, le bombole. Per recuperare le bombole vuote si sono attivati anche i carabinieri. Se ne occupa in prima persona anche il sindaco di Treviolo, che ha competenza provinciale sulla Protezione Civile.

E di nuovo si torna al problema di risalire la catena del soccorso per anticiparla.
Sarebbe forse utile attrezzare dei luoghi in cui assistere chi è in condizione pre-ospedaliera, ha bisogno di ossigeno e va allontanato dagli altri familiari. Come si sta pensando di fare negli hotel per chi esce dagli ospedali ma non può ancora rientrare a casa. Ci sono anche altri effetti collaterali del decorso domestico. Tante persone malate vivono in piccoli appartamenti in cui non è possibile separare gli ambienti. I familiari sono lì, necessariamente vicini.

Cioè a rischio contagio.
Altissimo.

E qui si ritorna alla tracciatura.
È esattamente quello che dicevamo prima.

Dicono che c’è anche il problema dei reagenti e dei laboratori, per gli esami.
Non so dirlo. Ma a questo punto, qui dove l’epidemia è così avanti, penso ci si debba concentrare anche su un altro tipo di test: quello che misurando il livello degli anticorpi può individuare chi è stato contagiato , anche in modo asintomatico, è soprattutto può certificare chi si è “negativizzato”.

Altrove si è fatto.
Mi pare in Corea. In questo momento mi risulta che diversi istituti di ricerca siano impegnati nella verifica di affidabilità di alcuni prototipi di questo tipo di test.

Spieghiamolo.
Non sono un medico ma provo a dirlo. La misurazione degli anticorpi consentirebbe di avere traccia del contagio pregresso, a cui è seguita una risposta immunitaria, ma anche ad avere la certezza che non sono più contagioso. E sarebbe importantissimo poterlo certificare.

Parla anche in prima persona.
Anche. Io ho chiuso in casa i miei genitori da un mese e ho paura di andarli a trovare perché non so se potrei contagiarli.

Quindi esami anche senza tampone.
Non si tratterebbe di tamponi rino-faringei, se ho ben capito, ma di test ematici. Sarebbe ovviamente importante poterne realizzare in grande quantità.

Luca Telese per www.tpi.it

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