Genova, chiese chiuse e porti aperti

GENOVA

C’è un prete a Genova che ha capito tutto e perciò ha deciso la serrata della sua chiesa di San Torpete. L’ha chiusa per tutte le vacanze di Natale, per protestare contro l’insensibilità verso i migranti, i poveri, la carità. Vorrei dire al prete, ormai famoso e recidivo, don Paolo Farinella, che se negli ultimi duemila e venti anni tutti i suoi predecessori in ogni parte del mondo avessero seguito il suo esempio, tutte le chiese sarebbero rimaste chiuse, e ininterrottamente. Anzi non le avrebbero nemmeno edificate. Perché l’egoismo, l’indifferenza, l’ingiustizia, le violenze, le guerre, le mafie, gli abusi e lo sfruttamento accompagnano e permeano la storia dell’uomo, prima, dopo Cristo e perfino durante, a Genova come nel resto del pianeta. Anche quando nacque Gesù era così; che vuoi festeggiare il Natale se c’è Erode che vuol massacrare il Neonato e c’è un popolo che poi lo condannerà a morte, su indicazione del sinedrio ed esecuzione dei romani?

Se per protesta contro il Male che c’è nel mondo noi sospendiamo il Bene, o ciò che perlomeno lo rappresenta, allora abbiamo consegnato il mondo al Male, in direttissima, senza contrastarlo. Abbiamo perso la speranza, non confidiamo nel miracolo, nella Divina Provvidenza, nei santi, negli angeli e nelle opere di bene. Lasciamo libero e indisturbato il campo alle forze del male.

Decisioni di questo genere rientrano in una specie di populismo clericale e mediatico di tipo sensazionalistico ben riassunto nella formula “Chiese chiuse, porti aperti”; un gesto così serve a lanciare come una star nei social il prete protestante (nel senso di protestatario), serve a far risaltare il protagonismo senile del parroco antagonista; serve a farlo sentire Anima Bella rispetto al Mondo Brutto e Cattivo. Ma queste scenate, stavo per scrivere scemate, non servono alla fede né ai fedeli, non servono alla Chiesa né alla comunità, non servono a fronteggiare il male e nemmeno ad arginarlo, a denunciarlo.

Anzi mi ricordano quanti vogliono abolire le processioni e le feste patronali solo perché in alcuni luoghi del sud si insinuano nelle cerimonie esibizioni di mafia, ‘ndrangheta e camorra. Che facciamo, aboliamo la fede per impedire che la strumentalizzi don Calogero, abroghiamo il culto della Madonna e la devozione a Padre Pio per evitare che se ne impossessi don Rafé? Queste decisioni alla don Farinella scavano fossati nell’abisso; con l’illusione di denunciarli, li aggravano. Anzi, questi atti simbolici sono prove tecniche di eutanasia della cristianità, del cattolicesimo, e infine del cristianesimo. Una Chiesa chiusa è un messaggio cupo, un segno di morte spirituale, religiosa, evangelica. Una resa, una ritirata, un abdicare al suo ruolo di Magistra Vitae e di guida dei fedeli. Che la Chiesa poi chiuda e i porti si aprano è il segno della fine di una civiltà, la sostituzione della cristianità con i migranti, in larga parte islamici.

Lasciamo il bergoglismo stradale e portuale dei nostri giorni e trasferiamoci su un altro terreno, provando a vedere le cose dall’alto e da lontano. E qui ci imbattiamo in una visione terribile della cristianità.

Il cattolicesimo estinto da secoli, le tradizioni del suo culto perdute, le cattedrali come grandi carcasse di navi, anzi gigantesche conchiglie cesellate e arenate, svuotate della vita che le abitò e ormai incapaci di offrire, all’orecchio che si fosse chinato su di esse, quei suoi, quelle armonie, quel rumore vago di una volta; ridotte ormai a gelide reliquie da museo. Monumenti di una credenza dimenticata, come le rovine romane, le cattedrali sopravvivono ormai dissacrate e mute. Non celebrando più il sacrificio della carne e del sangue del Cristo, le chiese sono ormai senza più vita. Sono parole scritte nel 1904 da Marcel Proust che pubblicò questo suo scritto profetico su Le Figaro, immaginando la fine del cristianesimo e la morte delle cattedrali. Uno scritto che poi tradusse Cristina Campo e che mi è tornato in mente pensando a due cose accadute nei nostri giorni. Una è l’incendio che ha devastato la Cattedrale di Notre-Dame a Parigi lo scorso 15 aprile del morente anno domini 2019.

L’altra sono le parole che ha detto il Papa prima di Natale, “Non siamo più nella cristianità”. Un segno funesto e una dichiarazione tremenda, perché pronunciata da un Papa, che sembrano confermare quel che Proust antevedeva, ma che ottimisticamente riteneva nei secoli a venire. Alla fine della cristianità dedicai molte pagine in un libro di un paio d’anni fa, Tramonti. Quel processo procede da lungo tempo, e si chiama secolarizzazione, e poi scristianizzazione; Bergoglio lo ha solo esplicitato e radicalizzato. Ma quella denuncia è in fondo anche un’autodenuncia. È la vittoria del tempo sull’eterno, del globale sullo spirituale, della Chiesa ridotta a crocerossa più che a crocifisso. La serrata della Chiesa da parte di un prete è figlia di quell’abdicazione, di quella perdita, di quel baratto tra la beatitudine eterna e il riscatto sociale, di quella riduzione della cristianità a mera umanità. E fa il paio con le chiese dove è possibile intonare Bella Ciao o schitarrare canzoni socio-mielose, ma non è possibile ascoltare Mozart…

Precorrendo un tema dei nostri giorni, Proust ammoniva che non si può cambiare destinazione d’uso alle chiese, l’aura del sacro non è commutabile; una chiesa non si salva che lasciandola a se stessa, alla sua identità originaria benché solitaria. Ite missa est, andate in pace.

MV, La Verità

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