Franceschini, ministro di Ogni Bene

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Franceschini – Cadono i governi, passano i Renzi, i Gentiloni, i Conte, regnano i Draghi. Un solo ministro resiste imperterrito e impermeabile a tutto e tutti: Dario Franceschini, Ministro per i Beni e le attività culturali (e fino a poco fa per il Turismo), diventato a questo punto egli stesso un bene archeologico e culturale da salvaguardare nonché una località turistica di pregio. Un ministro intoccabile, col vincolo della sovrintendenza ai beni artistici. Non lo schiodano da lì, salvo suoi avanzamenti di carriera o rovesci politici. Considerando che l’Italia è il paese al mondo con più beni artistici, Franceschini è di riflesso il più importante ministro della cultura al mondo.

Non a caso ha presieduto il G20 della cultura a Roma. Campione olimpionico di cultura per la proprietà transitiva. Più che un ministro, un pontefice, Papa Franceschini. O nella variante laica, Dario il Grande, come il re di Persia. I territori di sua competenza sono pressocche sterminati: si occupa di libri, editoria, pittura, scultura, monumenti, musica, cinema, teatro, danza, centri storici, festival, presumo anche circhi equestri e giochi di prestigio. Regna sulla cultura in tutte le sue varianti.

Ha mantenuto la carica di Ministro di Ogni Bene sia col diavolo che con l’acquasanta, attraversando maggioranze e governi: è stato ministro col serial killer Matteo Renzi al tempo in cui governava napoleonicamente l’Italia, rottamava i leader passati e trucidava i premier precedenti, come avrebbe poi fatto anche coi successori; poi fu ancora ai Beni culturali con l’euromoscio Paolo Gentiloni; quindi riprese la stessa postazione con il Conte Vanesio, nel governo grillopidino; ora mantiene il reame culturale perfino con zio Drago, il superpremier della supermaggioranza, mentre ha perso il turismo.

Col passare del tempo e dei governi, Franceschini si è così identificato col suo ministero e con l’oggetto del suo dicastero, al punto che non c’è scavo, scoperta, restauro, concerto, lutto, evento culturale senza la sua firma e la sua dichiarazione acclusa. Se rinvengono un reperto antico, arriva Franceschini e in video dà l’idea che sia stato lui a ritrovarlo, di persona. Se c’è un capolavoro appena restaurato, appare lui come restauratore.

Ogni servizio televisivo su tutto ciò che accade nel regno delle belle arti, dell’architettura, dell’antichità, del cinema e dei beni culturali, si conclude con l’icona di Franceschini e il suo pistolotto implicitamente autoelogiativo. Senza di lui l’Italia sarebbe un paese incolto, in preda all’incuria.

Lascia quasi l’impressione che dobbiamo a lui i monumenti di cui ci gloriamo; è come se lui avesse eretto il Colosseo, fondato Pompei e affondato Venezia, per renderla più bella come un galeone sommerso. A lui sembra che dobbiamo la Torre di Pisa, inclusa la pendenza a sinistra, che riflette la sua tendenza. A giudicare dalle interviste ai tg, la galleria degli Uffizi a Firenze e in genere tutti i capolavori d’arte nacquero dalla sua illuminata committenza e vivono sotto la sua amorosa tutela. Un protagonismo culturale prodigioso, un mecenatismo che a taluni sembrerà millanteria, da far impallidire i suoi predecessori; non solo ministri; anche i suoi precursori di Ferrara, gli Estensi.

Non dirò nulla del suo operato da ministro, ha commesso errori e sono discutibili alcune sue nomine; ma considerando i predecessori, Franceschini non sfigura affatto. Dobbiamo essere onesti e non farci prendere la mano dal gusto amaro del sarcasmo e della stroncatura per partito preso.

Quando apparve nella ribalta nazionale, Franceschini sembrava il fratello minore di Fini, quello che aveva studiato dai preti. Viso lungo, occhi piccoli e vicini, statura affine, occhialini leggeri, stesso barbiere, timbro di voce addolcito dalla frequentazione dell’oratorio, cadenza emiliana con la variante ferrarese, sopratutto nella pronuncia della elle (i dotti lo chiamano labdacismo). Persino il suo cognome sembrò la versione prolissa del suo fratello destrorso, benché analogo in capo e coda.

Franceschini si presentò alle origini come perfetta sintesi dell’Italia: nonno fascista, padre partigiano e deputato dc, lui democristiano con scappellamento a sinistra. Riassunto nazionale. Poi i nonni sparirono, la partigianeria trionfò e lui si buttò più a sinistra per coprire un’area ormai priva di leader dopo la strage degli indecenti compiuta da Erode Renzi. Senza più Veltroni, d’Alema, Bersani, Fassino, diventò titolare del pacchetto di maggioranza del Partito e azionista di riferimento della Premiata Ditta (PD).

Ma la mutazione più vistosa fu quella estetica, fisica. A un certo punto della vita è come se si fosse spretato. Buttò gli occhialini da seminarista, mutò la nenia da novena e la faccia da cilicio, si lasciò crescere la barba lasciva da vitazzuolo, assunse un look moderno e informale, quasi piacione; si secolarizzò, si ridusse allo stato laicale. Non entro, per carità, nei mutamenti della sua vita privata, sono fatti suoi; noto solo gli effetti pubblici e le ricadute politiche della sua metamorfosi.

Franceschini si tolse l’abito talare del giovane vecchio democristiano, abito mentale intendo, e partì alla conquista della sinistra, laica, fricchettona, salottiera, ztl, lgbtq, zan, cirinnà e cincillà. Allo stesso tempo, Franceschini passò alla letteratura, si fece romanziere, giurato dei premi letterari; un giorno si premierà in veste di ministro come scrittore. Lo vedremo poi sfidare Muti sul podio, danzare al posto di Bolle, cantare con Bocelli e rubare il violino a Uto Ughi?

Ma Franceschini è soprattutto il concorrente di Draghi per il Quirinale. È lui il candidato sottotraccia del Pd, il Mattarello bis che ci vogliono propinare. Matteo sterminator, pensaci tu, riportalo coi piedi per terra, in seminario.

MV, La Verità (4 agosto 2021)

 

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