Elezioni amministrative: vincono “dove era impossibile perdere”. Ma il campo largo ha basi fragili
Che il centrosinistra abbia vinto a Genova e Ravenna non dovrebbe sorprendere nessuno. Parliamo di due città dove, storicamente, il centrodestra ha sempre avuto vita difficile, e dove le vittorie della sinistra sono più un riflesso della tradizione che del presente.
A Ravenna, addirittura, è quasi riduttivo parlare di “vittoria”: lì il centrosinistra ha sempre sfiorato o superato percentuali bulgare. Stavolta, invece, qualcosa è cambiato
Certo, hanno vinto ancora, ma con un calo oggettivo e tangibile. Un campanello d’allarme? Forse sì, ma ovviamente nessuno lo ammetterà.
A Genova, il discorso è diverso ma non meno significativo. Come ha sottolineato lucidamente Alessandro Sallusti, il centrodestra ha scelto di “sacrificare” la città per proteggere un obiettivo più grande: mantenere la guida della Liguria. Una scelta dolorosa ma necessaria.
Non dimentichiamoci che Giovanni Toti non è stato mandato a casa dagli elettori: si è fatto da parte per motivi ben noti, e questo ha inevitabilmente influito sulla tenuta del centrodestra a livello locale
E allora, chi festeggia oggi nel “campo largo” dovrebbe forse domandarsi cosa sta davvero festeggiando. È facile esultare quando si vincono partite già scritte, quando si gioca in casa, con il favore delle abitudini e della storia. Ma è altrettanto facile dimenticare cocenti sconfitte, come quella di Bolzano, una roccaforte che sembrava inattaccabile e che invece è sfuggita di mano.
E poi, viene davvero voglia di chiedere: su quali basi sta in piedi questo campo largo? Un’alleanza che pretende di guidare l’Italia, ma che sembra più una convivenza forzata che un progetto comune.
La Todde in Sardegna – già gravata dall’imbarazzo dei rendiconti elettorali – è la dimostrazione di un governo traballante, tenuto insieme a fatica da un Movimento 5 Stelle in crisi e da un Partito Democratico sempre più lacerato al proprio interno. Come può un’alleanza del genere proporre stabilità al Paese?
C’è un rifiuto diffuso, nella sinistra tradizionale, persino a tollerare il nome di Matteo Renzi. E poi ci sono i referendum in arrivo, con metà del PD che va contro la linea del proprio segretario. È paradossale: si troveranno a combattere leggi – come il Jobs Act – che loro stessi hanno voluto, scritto e approvato. Dov’era l’opposizione interna, allora?
E infine, la questione della leadership. Giuseppe Conte non riconosce Elly Schlein come leader del campo largo, neanche in virtù del primato del suo partito. Propone una visione alternativa, in cui il premier non deve necessariamente venire dalla forza dominante. Una posizione che mina qualsiasi pretesa di coerenza e progettualità
È giusto che il centrosinistra festeggi. Ma forse, più che organizzare grandi celebrazioni, dovrebbe interrogarsi su cosa c’è davvero da festeggiare. Le vere sfide non sono nei comuni dove si vince per inerzia, ma nel Paese reale, dove servono progetti, visione, coerenza. E dove, a oggi, quel “campo largo” sembra ancora un terreno fragile e incerto.
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