Bossi, un terrone nascosto

Bossi

Ora che ha compiuto ottant’anni ed è tornato alla ribalta dopo una lunga penombra, vorrei rivelare il segreto di Umberto Bossi. Un segreto assoluto che non sa nemmeno lui. Bossi è terrone, meridionale, del sud. Terrone radicale, terrone dentro. Lui non se lo ricorda, ma è nativo del sud. Me lo ricordo io l’Umberto, negli omonimi giardini vicino all’università di Bari.

Se non era lui, era un sosia perfetto. Aveva i rayban, i capelli che si aprivano a farfalla sulla fronte; sfoggiava nei mesi estivi la canottiera, borbottava in gergo incomprensibile e bestemmiava contro Roma ladrona, i primi immigrati clandestini, gli eruditi e le coppie gay. Non sopportava le cravatte che allentava al collo e aveva la bocca sempre un po’ disgustata. Amava un cantante indigeno del tempo, che gli somigliava pure, Nicola di Bari da Zapponeta, quello che cantava “che colpa ne ho se il cuore è uno zingaro e va” e poi “Prendi la mia mano zingara, dimmi pure che destino avrò”.

Ed infatti una volta Bossi confessò a un giornale che imitava Nicola di Bari nel periodo in cui voleva fare il cantante. Curiosa ma significativa l’insistenza con cui già allora si occupava dei clandestini rom, e insieme annunciava l’intenzione di voler partire. Ricordo che parlava già allora di pianura patana, riferita all’ampia distesa di patane (patate in gergo pugliese) che coltivavano i suoi parenti nel Tavoliere. E poi i suoi discorsi sibillini, i suoi zig zag nelle amicizie e nelle inimicizie; un vero levantino.

Alcuni dicono che poi si iscrisse a Medicina, altri che emigrò al nord. Non si vide più dalle nostre parti, poi spuntò in Padania. Dei leader storici del centro-destra lui è stato senz’altro il più terrone (non s’offenda, detto da un terrone è un complimento, una specie di telepass per il regno delle due Sicilie). E se non s’offende aggiungo: è un cafone doc, nel senso di ruspante, genuino e popolano. Lui è stato l’archeologia campestre del populismo.

Se fosse ancora in vita Pinuccio Tatarella avrebbe scovato nel suo disordinato ma gigantesco archivio di “Puglia d’oggi” una cartella sull’infanzia pugliese di Bossi. Avrebbe trovato pure la sua foto con dedica: A Pinuccio il Vastaso e agli altri ribusciati da Umberto lo Sgalliffo (espressioni intraducibili nella lingua padana).
Bossi è stato un vero animale politico e non si arrabbi se taluni si fermano solo alla prima metà della definizione. Il suo fiuto, il suo senso della realtà e del popolo, la sua rudimentale mitologia coglievano nel segno.

Degli alleati di Berlusconi apparve all’inizio il più inaffidabile, ma poi si rivelò il più leale. Ma non si lasciò mai “colonizzare”, non portò la Lega dentro la Casa berlusconiana, come fece Fini con An; mantenne un’istintiva, fiera autonomia, pur mostrando simpatia per il Cavaliere. Fece molti errori, e qualche abuso, lasciò seri danni alla sua Lega, ma il giudizio su di lui va espresso nel complesso e nel contesto, paragonandolo ai leader pari grado e a tutto il suo cammino.

Ma torno alla sua identità profonda e surreale che più m’intriga. Lui è meridionale per stile, temperamento e vocazione. Sanguigno e impulsivo, furbo, masculo e un po’ teatrale, come sono i meridionali, almeno quelli di una volta. Com’era meridionale la sua guapparia che un tempo ostentava in politica, che ai suoi avversari appariva più apparenza, da guappo e’cartone. Com’era meridionale il suo modo patriarcale di governare il suo partito, da padre padrone, per non dire del paternalismo in favore di suo figlio Renzo. Si capisce che anche lui è devoto alla filosofia padana che “i figli so’ piezz’e core”.

Non ricordo, lo diceva Cattaneo o Miglio? Magari da noi al sud, suo figlio il Trota lo avrebbero ribattezzato a’ Pezzogna o a’ Triglia, pesci etnicamente eco-compatibili; però la sua visione dinastico-ereditaria, il suo familismo patriarcale, è così tipica del sud. Com’era meridionale il suo linguaggio da bar dello sport, la sua storica canottiera, il suo gallismo con le femmine, da lei ribattezzato celodurismo; il suo provincialismo casereccio, la sua preferenza per i compaesani, la sua diffidenza per i forestieri. E come somigliava nei suoi modi ruspanti e antipolitici al suo cugino di campagna, il terrone Tonino Di Pietro.

Com’è meridionale il suo modo di parlare che ora somiglia, dopo quel disgraziato coccolone, a quello del Padrino interpretato da Marlon Brando. Similitudine solo apparente, mica criminale. Bossi ha acquistato con la malattia e il parlare più stentato un tono quasi oracolare; sembra un Grande Vecchio, perfino un Grande Saggio. Pure le boutade più grevi dell’Umberto, pronunciate ora con quel tono e con quella bocca, hanno acquistato un peso sapienziale e un’aura profetica.

Ma per tornare alla suddità, mi aspetto sempre che al termine delle sue frasi sussurri Bedda Matri e che i picciotti padani gli bacino le mani. Com’era meridionale la sua difesa delle province, e del posto pubblico per gli impiegati, consiglieri e assessori provinciali. Com’era meridionale la sua critica un po’ brigantesca all’Unità d’Italia, l’oltraggio al Tricolore e la condanna grezza del Risorgimento che, come è noto, fu fatto dai padani, liguri, lombardi, veneti e piemontesi, e fu subìto dai terroni.

Com’è meridionale la sua idea di Roma un po’ ladrona un po’ bagascia. Com’è meridionale la camicia verde dei suoi padani, che ricordava le camicie verdi di Gheddafi, la rivoluzione islamica e la Lega araba, un’altra lega di un altro sud. Caro Bossi, ora che ha 80 anni ed è fuori corsa, non si vergogni del terrone che abita in lei. Comunque auguri, di cuore, benché tardivi, non solo da conterroneo.

MV, Panorama (n. 40)

 

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