Boldrini Di Battista & c. al terzo canto del gallo
Il caso che ha portato all’arresto di Mohammad Hannoun, presidente dell’Associazione dei Palestinesi in Italia, accusato dalla procura di Genova di aver finanziato Hamas attraverso una rete di associazioni formalmente benefiche, non è soltanto una vicenda giudiziaria. È soprattutto una questione di responsabilità politica, di metodo e di credibilità pubblica.
Prima ancora delle inchieste e degli arresti, Hannoun era una figura nota, presente da anni nel circuito delle iniziative politiche e associative legate alla causa palestinese, spesso affiancato e presentato da esponenti della politica italiana
Laura Boldrini e Alessandro Di Battista, pur provenendo da percorsi diversi, hanno condiviso palchi, eventi, manifestazioni e iniziative in cui Hannoun veniva proposto come interlocutore affidabile, come rappresentante legittimo di una causa ritenuta giusta.
Non si trattava di incontri casuali o privati, ma di contesti pubblici, visibili, documentati, che contribuivano a rafforzarne l’autorevolezza e la credibilità. In politica, questi gesti non sono mai neutri: significano legittimazione, riconoscimento, assunzione indiretta di responsabilità
A rendere il quadro ancora più delicato è il ruolo dei simpatizzanti e dei sostenitori. Quando una figura politica introduce qualcuno, lo invita a un evento o ne condivide il palco, parla anche e soprattutto alla propria comunità politica. Militanti, elettori, attivisti si fidano di quel giudizio, danno per scontato che un minimo di verifica sia stata fatta, che non si stia offrendo visibilità a soggetti opachi o controversi.
È così che si costruisce consenso, ma è anche così che, se qualcosa va storto, il danno si propaga ben oltre il singolo politico, coinvolgendo cittadini in buona fede che si sono affidati a quella mediazione
Dopo l’arresto di Hannoun, il tono è cambiato radicalmente. Laura Boldrini è intervenuta con parole nette, parlando di un accostamento “subdolo e scorretto” del suo nome alla vicenda, denunciando un clima di fango e sospetti e respingendo ogni collegamento.
Secondo l’ex presidente della Camera, si tratterebbe di una strumentalizzazione politica, di allusioni usate per delegittimare anziché per affrontare i fatti in modo chiaro e trasparente. Una linea difensiva che punta a ridimensionare, a prendere le distanze, a negare qualunque responsabilità indiretta
Ma è proprio qui che si apre il nodo politico. Perché il problema non è l’accostamento giudiziario, che nessuno serio sostiene, bensì l’accostamento politico e pubblico, quello che per anni è stato visibile e rivendicato. Dire oggi che ogni riferimento è scorretto significa ignorare il peso simbolico e concreto di quelle presenze, di quelle strette di mano, di quelle foto e di quegli eventi. Significa ridurre la politica a una somma di episodi isolati, quando invece è fatta di continuità, di scelte, di responsabilità cumulative.
Anche Alessandro Di Battista, pur senza dichiarazioni altrettanto esplicite, ha scelto una linea simile: minimizzazione, spostamento del focus, richiamo generico alla distinzione tra la causa palestinese e le responsabilità individuali
Una posizione che evita di fare i conti con il punto centrale: se non sapevano, emerge una grave superficialità e impreparazione; se sospettavano e sono andati avanti lo stesso, emerge un cinismo incompatibile con il ruolo pubblico. In entrambi i casi, la credibilità politica ne esce indebolita.
In una democrazia matura, l’opposizione non è un alibi morale. È un luogo di costruzione della futura classe dirigente. Chi oggi rivendica il ruolo di coscienza critica del sistema dovrebbe dimostrare rigore, capacità di valutazione, attenzione alle conseguenze delle proprie scelte. Soprattutto perché l’opposizione parla a cittadini che si fidano, che seguono, che vengono orientati anche emotivamente e simbolicamente.
La parabola che emerge da questa vicenda è evidente: prima la legittimazione pubblica, poi la sorpresa, infine la presa di distanza indignata. È una dinamica che richiama inevitabilmente l’immagine evangelica di San Pietro che, messo di fronte alla prova, negò di conoscere Gesù al terzo canto del gallo. Non è un giudizio morale o religioso, ma politico: di fronte alla responsabilità, la risposta non è l’autocritica o l’assunzione di errore, bensì la negazione e la difesa d’ufficio.
Ed è qui che si consuma la vera squalifica politica. Non nei tribunali, ma nel rapporto di fiducia con i cittadini. Perché la correttezza, la preparazione e l’onestà non sono requisiti accessori: sono il fondamento stesso della rappresentanza democratica, soprattutto per chi oggi sta all’opposizione e domani potrebbe aspirare a governare.

