Afghanistan, la tribù come destino

talebani

Afghanistan, la tribù come destino

Da anni seguo le vicende dell’Afghanistan con un misto di fascinazione e impotenza. È una terra che non si lascia conquistare, un luogo dove la storia sembra piegare ogni invasore fino a renderlo parte della propria sconfitta. Nessuno, in oltre duemila anni, è riuscito a dominarlo davvero. Né Alessandro Magno, né gli inglesi, né i sovietici, né gli occidentali. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno dovuto arrendersi al medesimo principio: lì non esiste Stato, ma solo appartenenza.

Il potere, in Afghanistan, non si esercita. Si negozia. Si divide tra clan, tra famiglie, tra tribù che riconoscono soltanto se stesse. Il Pashtunwali — quel codice d’onore fatto di ospitalità, vendetta e orgoglio — vale più di qualunque costituzione o trattato. È l’ossatura invisibile di un popolo che sopravvive da millenni senza mai fondersi in una vera nazione.

I sovietici tentarono di cambiare questo destino nel 1979. Volevano portare modernità e socialismo, ma finirono per scatenare una resistenza che li logorò dall’interno. Anche gli americani, dopo l’11 settembre, provarono a “costruire” un Afghanistan democratico. Ma la loro idea di Stato era estranea a quel tessuto sociale. Venti anni di missione, miliardi di dollari spesi, un esercito addestrato e armato: tutto svanito in poche settimane. Quando Donald Trump firmò gli accordi di Doha nel 2020, la fine era già scritta. Joe Biden si limitò a completare un ritiro che molti chiamarono “inevitabile” ma che, nella sostanza, fu una resa.
Il non detto o non scritto è il sospetto che gli americani prima di andarsene abbiano ottenuto come unica garanzia dai Talebani la promessa di non ospitare più basi Jhiadiste nei propri territori.
Promessa mantenuta poco dopo la partenza con il tentativo da parte dell’isiss di infiltrarsi nel paese ma bloccato sul nascere dal nuovo governo talebano al quale va dato atto di essersi opposto fino ad ora efficacemente.

Le immagini di Kabul del 2021 — uomini aggrappati agli aerei, famiglie disperse sulla pista — sono ormai storia. Ma raccontano molto più di una sconfitta militare. Raccontano il disincanto di un’epoca. Dopo Saigon, l’America ha perso un’altra guerra che non poteva vincere. Non per mancanza di potenza, ma di comprensione.

Molti, all’epoca, vollero credere che i Talebani fossero cambiati. Invece erano soltanto diventati più scaltri. Hanno imparato la lingua della diplomazia, non quella dei diritti. Hanno capito che il mondo occidentale non ha più fame di interventi, e che il silenzio vale più delle promesse. Così hanno offerto stabilità in cambio di isolamento, ordine in cambio di libertà. E il mondo, stanco di guerre, ha accettato.

Oggi, a quattro anni dal ritiro, l’Afghanistan vive in un silenzio che somiglia alla pace ma non lo è. Secondo Human Rights Watch, oltre venti milioni di persone necessitano di assistenza. Le donne sono state espulse dalla vita pubblica: niente scuole, niente lavoro, niente libertà di movimento. Amnesty International parla apertamente di “apartheid di genere”, e non è un’esagerazione. Le attiviste che protestano vengono arrestate o scompaiono. Le poche che riescono a fuggire lo fanno di notte, con documenti falsi e paura negli occhi.

Le corti religiose hanno sostituito ogni forma di giustizia civile. Le punizioni corporali sono tornate, insieme alle esecuzioni pubbliche. I giornalisti vengono zittiti, gli artisti censurati, gli insegnanti minacciati. Le minoranze etniche, come gli Hazara, subiscono persecuzioni sistematiche. L’amnistia promessa dai Talebani ai collaboratori del vecchio governo si è dissolta nel nulla.

Eppure, dentro questa oscurità, il Paese conserva una sua coerenza. La tribù resta il rifugio, ma anche la prigione. L’identità collettiva domina sull’individuo. La libertà personale è un concetto fragile, quasi estraneo. I Talebani non hanno bisogno di espandersi: il loro potere vive e si alimenta nell’autosufficienza, nella chiusura. Non vogliono conquistare, vogliono sopravvivere.

C’è un paradosso amaro in tutto questo. L’Occidente, con la sua pretesa di “civilizzare”, ha finito per rafforzare ciò che voleva dissolvere. Ha portato scuole, elezioni, infrastrutture, ma non ha mai compreso la logica tribale che regge quel mondo. Ha confuso il cambiamento con la conquista, l’educazione con la dominazione. Quando se n’è andato, l’Afghanistan è tornato com’era. O forse non se n’era mai andato davvero.

Oggi il Paese è prigioniero di un ordine che si perpetua da secoli. Gli uomini comandano e tacciono, le donne scompaiono, le montagne restano. Il potere passa di mano, ma la struttura resta intatta. Non c’è Stato, solo appartenenze. Non c’è progresso, solo resistenza.

E forse è questa la lezione più dura da accettare: l’Afghanistan non è stato sconfitto, ma nemmeno ha vinto. Ha semplicemente continuato a essere se stesso. Un luogo che rifiuta ogni definizione, dove la tribù è più forte dello Stato e dove la libertà, quando arriva, dura quanto un’alba nel deserto.

Leggi anche:

Exit mobile version