Abiet. Quando gli Ascari sceglievano se allontanare il proprio Comandante

 

Nella nostra avventura rievocativa dell’epopea degli Ascari Eritrei, evocata dalle suggestioni di una tela nel deserto, salta immediatamente all’occhio come tra la truppa Ascari ed il loro Comandante italiano si instaurasse da subito un rapporto ben più profondo della rigida etichetta militare, insegnata nelle Scuole ed Accademie con stampo ancora ottocentesco. Un rapporto a tratti privilegiato rispetto a quello dei loro pari grado italiani in Patria

Gli Ascari (letteralmente Soldati) i graduati Muntaz ed i loro superiori indigeni, primo tra tutti il carismatico Sciumbasci, avevano una concezione paternalistica del loro Comandante, sempre un Ufficiale italiano, chiunque egli fosse, ma erano anche insofferenti ad intemperanze eccessive da parte sua. Un’incrinatura di questo rapporto ben più incisivo di quello strettamente gerarchico, se percepito come eccessivo od ingiusto, produceva un allontanamento insanabile delle posizioni. E stavolta la prassi e poi il Regolamento dava ragione alla truppa e non all’Ufficiale.

L’Ufficiale che comandava queste truppe doveva avere un senso squisito di giustizia, oltre a modi confacenti alle loro tradizioni ed in fin dei conti al grande orgoglio e carattere permaloso. Male sarebbe stato per lui dare una punizione così, alla leggera, senza aver prima sondato sulle cause che avessero determinato la mancanza e senza aver prima convinto il colpevole che realmente lui avesse mancato e che quindi la punizione fosse giusta, meritata, alla quale sottostare con animo lieto perché il padre (l’Ufficiale era sempre il padre di tutti i suoi Ascari) lo punisce per il suo bene e perché serva di norma agli altri.

Se l’Ufficiale non era giusto nelle sue punizioni o nei modi, era invalsa la usanza che il reparto facesse l’Abiet. Tale momento di “implorazione” costituiva una sorta di momento di rivendicazione del Reparto delle proprie posizioni innanzi al Comandante, ovviamente filtrate e caldeggiate dallo Sciumbasci, sottufficiale anziano, massimo grado ricopribile da un indigeno, vero factotum e luogotenente dell’Ufficiale italiano, dal prestigio e carisma indiscussi.

 Ma quando durante l’Abiet, il graduato presentava il reparto, ed al comando di presentat-arm tutti rimanevano a pied-arm, allora era chiaro che il Comandante non era più rispettato dai sottoposti. E, sorprendentemente, quasi sovvertendo ogni regola militare, a tale rituale “ammutinamento”, non corrispondeva una punizione al reparto, bensì l’allontanamento dallo stesso dell’Ufficiale, che per lo più veniva rimpatriato, essendo ormai il suo prestigio perduto.

Questo forte legame con il proprio superiore era ribadito dal fatto che quando un Ufficiale moriva in combattimento, per gli Ascari il disonore cadeva su quel reparto: motivo per cui, nella battaglia, gli Ascari facevano scudo con la loro persona all’ufficiale.

Si narra che nel 1928 quando durante l’occupazione di El Agheila, passando per Birbilai dove qualche anno prima il settimo battaglione Eritrei, inoltratosi incautamente nella zona dei Mogarba, era stato letteralmente distrutto, si trovarono ancora i resti degli scheletri attorno ad uno scheletro dominante nel mezzo: erano gli Ascari che caddero tutti difendendo fino all’ultimo il loro Ufficiale!

Nella Libia operavano Battaglioni Libici, Battaglioni Eritrei puri e Battaglioni misti: i primi erano composti di Arabi, i secondi di Eritrei ed i terzi in massima parte di Eritrei (i graduati) e di Etiopici di oltre confine (per lo più del Goggiam), che venivano arruolati per due anni, che potevano raffermarsi e che Ras Tafari si degnava concederci con la prospettiva di avere così anche lui un nerbo di armati istruiti all’europea pronti sempre per qualsiasi evenienza.

La varietà della religione costituiva ovviamente un problema ed un ostacolo, ma solo relativamente. Si era trovato un momento di sintesi ed unione proprio nell’orgoglio di appartenenza e spirito di corpo degli Ascari. Difatti mentre i Libici erano tutti musulmani, gli Eritrei erano in parte cristiani copti ed in parte mussulmani; quelli di oltre confine dell’Eritrea quasi tutti di religione copta.

Fra le nostre truppe eritree c’era grande rispetto tra musulmani e cristiani. Alla feste degli uni prendevano parte anche gli altri e viceversa. Sottolinea mio nonno nei suoi “Appunti di Viaggio che : “Mangiano anche assieme eccetto quando si trattava di carne: gli uni non mangiano la carne della bestia ammazzata dall’altro. E guai se, dopo abbattuto il capo, uno di diversa religione osasse toccare con le mani le carni della vittima! Sarebbero capaci di usare le armi per la profanazione compiuta”.

Hanno la massima cura del fucile (“Albini”, come lo chiamano loro il 91, perché i primi che videro con quest’arma furono gli Alpini)”. 

Tanto era la fedeltà all’Italia che è emblematica la storia dell’Ascari Scirè.

Mi piace ricordarla: siamo nel 1992, le truppe italiane tornarono in una martoriata Mogadiscio nell’Operazione Restore Hope,dopo tanti anni dalla Amministrazione fiduciaria concessa all’Italia nel dopoguerra, unica per un paese sconfitto nel secondo conflitto mondiale.

Bene, ai Paracadutisti della Folgore ed Incursori del Nono Col Moschin appena arrivati, un magro e dignitoso Somalo anziano si presentò armato di un “Albini” per rimettersi a disposizione del Comando Italiano.Il suo nome era Scirè, era stato un Ascari, ed era stato informato che gli Italiani “erano tornati”. La sua fedeltà aveva fatto il resto.

Il Generale Loi, illuminato e ammirato Comandante del contingente militare italiano, fece consegnare all’ottuagenario Ascari Scirè un’uniforme, i gradi di caporalmaggiore e il brevetto – ad honorem – di paracadutista e incursore, facendolo montare di guardia all’ambasciata per tutta la durata della missione.  Rispettato e ben voluto da tutti, non mancava di imbarazzare gli astanti, pur redarguito più volte,  nelle cerimonie ufficiali, con il suo grido “Viva il Duce, viva il Re, viva l’Italia”.Terminata la missione in Somalia, con il rientro del contingente italiano, gli vennero consegnati i gradi di maresciallo. E’ solo un esempio recente di ciò che le Truppe Coloniali erano state in grado di compiere, e del loro sincero attaccamento all’Italia.

L’epopea degli Ascari, sconosciuta al grande pubblico, ricca di militari decorati al valore, di gesta eroiche, ha avuto tantissimi riconoscimenti letterari e giornalistici, anche in tempi moderni. Tutti, di ogni parte politica, concordano sul fatto che fu gloriosa ed ingiustamente archiviata, quasi con vergogna.

Aldo Cazzullo sul “Corriere della Sera” del 9 ottobre 2004, introducendo una mostra su Ascari Eritrei a Roma, parla di una pagina nascosta e dimenticata di soldati neri e scalzi che morivano gridando “Avanti Savoia”

Indro Montanelli, che abbiamo incontrato varie volte in questo excursus, allora neolaureato e giovane Sottotenente di complemento, affidava il suo racconto delle Truppe Coloniali nella sua prima opera:  “XX Battaglione Eritreo”. Proprio tale suo scritto, pubblicato in Patria all’insaputa dell’Autore lo aveva reso famoso pur giovanissimo. Al punto che il Capitano della Regia Aeronautica, pilota, giornalista del Corriere, scrittore e poi docente universitario Vittorio Beonio-Brocchieri, fu felice di incontrarlo fortuitamente in Eritrea durante una missione del 1936, informandolo del suo inconsapevole successo. Chioserà l’indimenticabile Indro nel 2000, che non ne sapeva ancora nulla scrivendo in una sua Stanza proprio sul Corriere della Sera:  “pensai che Beonio-Brocchieri fosse matto”.

Quando il presidente Eritreo Isais Afwerky s recò in visita a Tripoli, il leader libico Gheddafi, mostrandogli un dipinto raffigurante Asacri, li etichettò come “schiavi degli italiani”. Nulla di più falso, lo corresse Afwerky: erano “volontari”. Scrive Alessandro Ortensi su Il Foglio del  31 luglio 2004 Mercenario è l’offesa più grande per un fanciullo eritreo..nessuno lo fece per soldi, non per uno stipendio che era inferiore a quello di un portatore d’acqua”. Non v’è Eritreo a tutt’oggi che non abbia avuto un nonno o uno zio Ascari.

Carlo Fruttero sulla Stampa del 12 aprile 2003 “Fu una specie di epopea anonima, pochissimi di quegli incredibili guerrieri, di quegli eroi scalzi e nodosi, furono onorati nelle cronache del tempo,, nei rapporti dei nostri comandi. Mercenari, ovviamente. Ma sensibilissimi all’onore del plotone, della compagnia, del reggimento. Carne da cannone, ovviamente. Ma solo per i ministri e generali a Roma. Sul campo i nostri Ufficiali li rispettavano e ammiravano senza riserve e li impiegavano senza cinismo…vittoriosi o no, le loro gesta contro ogni nemico sono davvero degne di memoria”.

Ma gli Ascari non erano i soli Militi al servizio dell’Italia. Completavano il quadro Dubat e Dubor. Ma questa, come si dice, è la prossima storia.

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