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Si ritorna alla … giustizia geometrica? Quanto vale la vita di una bambina?

Riflessioni semiserie - ma molto amare - sul caso di Alessia Pifferi, condannata in primo grado all'ergastolo, che ha visto la pena ridotta in appello

di Domenico Del Nero
17 Novembre 2025
In Attualità
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Si ritorna alla … giustizia geometrica? Quanto vale la vita di una bambina?

Immagine di Peter Linforth da Pixabay free download

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Poco meno di tre secoli fa, un nobiluomo di Lunigiana, Gian Cristoforo Malaspina, marchese di Mulazzo, si scandalizzava vivamente perché, in una causa in cui era coinvolto il figlio contro un villan rifatto e danaroso di Pontremoli, chi doveva giudicare non teneva sufficiente conto della “disparità di nascita” dei due contendenti: “ Con che par che si supponga uguaglianza tra un suddito immediato di S. M. Cesarea e Cattolica ed un che conferma pubblico monumento dei suoi natali nel  cartello che si vede affisso alla sua bottega …” [1] Lo stupore del signor marchese è così genuino, così sincero, che lo rende persino in fondo simpatico, anche se certo non doveva essere un tipo facile con cui trattare. Il suo principio indefettibile, a cui più volte si richiama è quello aristotelico della “giustizia geometrica” che, semplificando all’osso, si basa soprattutto sul “rango” dei contendenti o di chi ricorre ai tribunali di qualsiasi tipo.

Nei nostri tribunali però una scritta recita con tanto di bilancia: “La legge è uguale per tutti”. Che vuol dire per tutti? Che in linea puramente teorica non si dovrebbe tener conto di nascita, sesso, religione, stato sociale etc. ma solo di chi ha ragione e di chi ha torto, o della gravità del crimine commesso; al netto, ovviamente, di attenuanti, aggravanti etc da tenere comunque in debita considerazione.

Oggi però sembra affacciarsi un altro tipo di giustizia “geometrica” che non ha nemmeno una patente di aristotelica nobiltà filosofica, ma sembra affondare nell’assai più ignobile melma woke: qualcuno è più “uguale” di altri. La “disparità di nascita” tanto cara al marchese di Mulazzo non riguarda oggi il colore del sangue (blu o ignobilmente rosso) ma quello della pelle se mai e soprattutto il genere.

Già, il genere; questo novello vitello d’oro non si limita a stravolgere il buon senso, per cui non conta tanto nascere maschio o femmina, quanto ciò che si “decide” di essere, senza il minimo riguardo per le pudenda originali. Oltre a questo assistiamo a una “logica” – se così può dire – alquanto inquietante non solo sul piano giuridico, ma anche del puro buon senso: la vita di una donna sembra valere di più di quella di un uomo, così come la misura della colpevolezza sembra adesso dipendere dal genere del reo.

Un caso eclatante? È di questi giorni la notizia della riduzione della pena  Alessia Pifferi : 24 anni in appello dopo essere stata condannata in primo grado all’ergastolo. La sua colpa? Avere lasciato sola e incustodita per sei giorni la figlia Diana nel luglio 2022: una bambina di un anno e mezzo, morta di stenti, possiamo immaginare in mezzo a quali tormenti.  Il motivo? Andare a spassarsela con il proprio amante. Un episodio dai risvolti raccapriccianti, se solo si pensa che la povera creatura è morta di fame e disidratazione: pare che abbia tentato di mangiare il suo stesso pannolino.

Nessuna infermità mentale: i giudici hanno stabilito che la Pifferi è capace di intendere e di volere. Ma i magistrati di appello hanno ritenuto di concederle le attenuanti generiche. “Sono arrabbiata e ferita dal fatto che siano state prese in considerazione cose che non contavano. Di Diana non si ricorda più e si pensa solo a giustificare, per me non è giustificabile quello che è successo. Inoltre non ho visto segni di pentimento in mia sorella, continua ad addossare la colpa ad altri”. Chi parla così è Viviana Pifferi, sorella di Alessia. [2]

Corre inevitabile il confronto con i reati di femminicidio, come quello infame e senza alcuna attenuante di Filippo Turetta: un ergastolo senza ombra di dubbio più che meritato. Ma quello della Pifferi non lo era altrettanto? La vita di una bambina di un anno e mezzo, condannata ad una fine atroce, “vale” forse di meno?

E come mai non si sente traccia del solito coro di anime belle, di barbassori e pitonesse, sempre pronti a scatenare stracciar di vesti e stridor di denti? Silenzio assordante.

Già, perché questa volta non è possibile accusare o tirare in ballo il “patriarcato”, radice di ogni male e di ogni delitto.  Patriarcato che tra l’altro viene tirato in ballo solo quando si tratta della nostra civiltà, mentre ad altre “culture” è concesso più o meno tutto: costringere ragazze a portare il velo, a sposare uomini molto più grandi di loro e magari – perché no? – a impiccare gli omosessuali, senza che nessuno degli sculettanti protagonisti dei pride trovi nulla da ridire.

E allora viene alla fine un dubbio: che avesse ragione il marchese Gian Cristoforo?

 

[1] Domenico DEL NERO, La disfida di Pontremoli. Una disavventura dei Malaspina, Lucca, Pacini Fazzi, 2006, p. 147.

[2] https://mediasetinfinity.mediaset.it/news/mediasetinfinity/verissimo/viviana-pifferi-sorella-alessia-pifferi-morte-diana_SE000000000023_t469ELntraDm2K8sOwswypt

Tags: Alessia PifferiFEMMINICIDIOGian Cristoforo MalaspinaIN EVIDENZAPATRIARCATO
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