Referendum 8-9 giugno: perché è inutile andare a votare
Il referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno si presenta come un esercizio retorico più che una reale occasione di cambiamento.
Un appuntamento costruito su premesse deboli, con un esito prevedibile e un obiettivo che poco ha a che fare con l’interesse generale
Dietro l’apparenza di un’iniziativa popolare, si cela infatti un’operazione tutta interna al Partito Democratico, ormai sempre più prigioniero delle proprie contraddizioni e lotte intestine.
La principale forza politica promotrice del referendum è infatti lo stesso Partito Democratico che, con notevole faccia tosta, tenta oggi di cancellare o rinnegare uno dei provvedimenti simbolo della stagione riformista a cui esso stesso ha dato vita: il Jobs Act. Approvato nel 2015 dal governo Renzi con il plauso di Bruxelles e dei mercati, il Jobs Act rappresentava – giusto o sbagliato che fosse – un tentativo di modernizzare il mercato del lavoro.
Oggi invece viene additato come simbolo di ogni male, capro espiatorio ideale di una segreteria, quella di Elly Schlein, che sembra impegnata più a epurare la propria storia recente che a proporre una visione credibile per il futuro.
Gaetano Quagliariello lo ha detto chiaramente: i promotori del referendum sanno perfettamente che non verrà raggiunto il quorum
E ha ragione. I quesiti sono tecnici, la mobilitazione è minima, il periodo è il peggiore possibile per sperare nella partecipazione di massa. E allora a cosa serve questa chiamata alle urne? La risposta è semplice: a regolare conti interni.
Il referendum è diventato lo strumento con cui l’ala massimalista del PD – oggi egemonizzata dalla segretaria Schlein e da un blocco ideologico che guarda più ai movimenti che alle istituzioni – tenta di chiudere definitivamente lo spazio ai riformisti sopravvissuti alla diaspora renziana. L’obiettivo è chiaro: trasformare il partito in una sorta di “nuova sinistra” radicale, scollegata dal suo passato di governo e sempre più simile, nei toni e nelle proposte, a un Movimento 5 Stelle in salsa intellettuale.
Non si tratta di creare un “campo largo”, ma di imporre una convenzione culturale e politica che esclude chiunque non si adegui al nuovo verbo identitario. Il voto referendario, in questo schema, è solo un pretesto per marcare una linea divisoria: da una parte i “buoni”, i puri, i paladini dei diritti e della giustizia sociale; dall’altra i “cattivi”, gli ex riformisti, gli ex governisti, i colpevoli di aver creduto in un centrosinistra moderno e capace di parlare al Paese reale.
Andare a votare l’8 e 9 giugno, in questo contesto, significa partecipare a un gioco già scritto, che non cambierà nulla né sul piano normativo né su quello politico, ma servirà solo a legittimare una resa dei conti che riguarda pochi e interessa ancora meno
Chi davvero vuole una sinistra seria, riformista e popolare, non ha nulla da guadagnare in questa farsa. E allora, tanto vale restare a casa.
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