VIOLENZA SESSUALE E RIFORMA DELL’ART. 609-BIS C.P.: TRA PRINCIPI CONDIVISI E CRITICITÀ TECNICHE EVIDENZIATE DA GIURISTI E OPERATORI DEL DIRITTO

VIOLENZA SESSUALE E RIFORMA DELL’ART. 609-BIS C.P.: TRA PRINCIPI CONDIVISI E CRITICITÀ
TECNICHE EVIDENZIATE DA GIURISTI E OPERATORI DEL DIRITTO

Nei giorni scorsi, alcuni esponenti politici del centrosinistra, anche localmente, hanno espresso critiche che si sono concentrate più sulla dimensione politica dell’accordo bipartisan che ha accompagnato la riforma dell’art. 609-bis c.p. (Violenza sessuale), che non sul merito tecnico della questione: come se fosse più importante che la modifica venisse varata il 25 novembre, giorno dedicato all’eliminazione della violenza contro le donne, che la sua tenuta processuale.

Tali rilievi hanno riaperto una discussione più ampia, che coinvolge non solo il mondo politico ma anche appartenenti alle forze dell’ordine, magistrati, avvocati e studiosi del diritto penale, ovvero quei soggetti che saranno direttamente impegnati — nelle indagini, nei processi, nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale nell’applicazione concreta della norma.

In questo contesto, il dibattito giuridico che si è sviluppato nelle ultime settimane appare particolarmente utile per comprendere i punti di forza e le criticità della riforma approvata alla Camera
all’unanimità e attualmente al vaglio del Senato.

Il nuovo testo introduce la nozione di “consenso libero e attuale” come elemento fondante della
violenza sessuale, segnando un cambiamento significativo nella struttura della fattispecie penale.

Il consenso bipartisan sul principio ispiratore — rafforzare la tutela dell’autodeterminazione sessuale
e adeguare l’ordinamento italiano alla Convenzione di Istanbul — non ha impedito l’emergere di osservazioni tecniche da parte di giuristi, magistrati e studiosi. Si tratta di analisi che non contestano l’impostazione culturale della riforma, ma sollevano interrogativi sull’effettiva applicabilità del testo e
sulla sua coerenza con i principi costituzionali.

La riscrittura dell’art. 609-bis introduce una definizione della violenza sessuale fondata sull’assenza di consenso libero e attuale.

Violenza, minaccia, abuso di autorità, sfruttamento della vulnerabilità o sostituzione di persona non costituiscono più il nucleo autonomo della fattispecie, ma diventano
situazioni che escludono il consenso.

Secondo molte voci favorevoli alla riforma, questo impianto recepisce modelli diffusi in altri ordinamenti europei e consente di riconoscere come violenza sessuale anche quelle situazioni in cui la vittima non oppone resistenza fisica ma versa in condizioni psicologiche, ambientali o relazionali che
impediscono un’autonoma autodeterminazione: quando la donna dice no… è no!

Nonostante questo avanzamento culturale, una parte significativa della dottrina penalistica segnala
alcune criticità che il Senato potrebbe valutare in sede di seconda lettura. Le osservazioni più ricorrenti
riguardano tre ambiti.

1. Tassatività della norma e definizione di “consenso libero e attuale”

Alcuni giuristi sottolineano che la formula adottata — pur ispirata alla Convenzione di Istanbul — non è
accompagnata da una definizione legislativa dettagliata. L’assenza di una tipizzazione più precisa potrebbe ampliare la discrezionalità interpretativa del giudice e rendere meno definito il confine tra condotta lecita e illecita. Per questo motivo, alcuni penalisti propongono che la legge indichi criteri più puntuali, come: libertà da coercizioni fisiche o psicologiche; riferibilità del consenso allo specifico atto;
revocabilità in ogni momento; riconoscibilità del dissenso o del consenso secondo il parametro
dell’agente ragionevole. In mancanza di tali chiarimenti, secondo parte della dottrina garantista, la norma rischia di entrare in tensione con il principio di legalità e determinatezza sancito dall’art. 25, comma 2, della Costituzione

2. Onere della prova e rischio di sbilanciamento probatorio

Un secondo punto sollevato riguarda il tema dell’onere della prova. Alcuni penalisti evidenziano che un
modello incentrato interamente sull’assenza di consenso potrebbe complicare la dimostrazione degli
elementi del reato, soprattutto quando mancano riscontri oggettivi. Il timore è che, in pratica, si verifichi
una sorta di inversione culturale o sostanziale dell’onere della prova, nella quale l’imputato si trovi a
dover dimostrare l’esistenza del consenso, pur non essendoci obblighi di legge in tal senso.

Le analisi garantiste ribadiscono che la riforma non modifica la presunzione di innocenza (art. 27 Cost.) né gli standard probatori del processo penale

Tuttavia, invitano il legislatore a chiarire esplicitamente che il principio dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” deve continuare a prevalere, scongiurando possibili
interpretazioni orientate al in dubio pro victima.

3. Proporzionalità della pena e trattamento uniforme di condotte differenti

Una terza criticità riguarda la cornice edittale di pena, identica (6–12 anni) sia per gli atti sessuali privi
di consenso ma senza uso di violenza fisica, sia per quelli commessi mediante violenza, minaccia o abuso grave.

Secondo altri studiosi, questa uniformità sanzionatoria rischia di non valorizzare adeguatamente la diversa gravità delle condotte

Alcune analisi suggeriscono l’introduzione di aggravanti specifiche per le ipotesi più gravi, in modo da rafforzare il principio di proporzionalità e
rendere la norma coerente con l’impianto complessivo dei reati sessuali.

La riforma dell’art. 609-bis — essendo ancora in itinere — è considerata da molti osservatori un passo importante verso un diritto penale maggiormente centrato sull’autodeterminazione sessuale.

Tuttavia, il dibattito giuridico emerso finora evidenzia la necessità di precisare alcuni aspetti tecnici per evitare
incertezze applicative o interpretative

Secondo una parte degli studiosi, il ruolo del Senato non dovrebbe limitarsi a una semplice ratifica, ma dovrebbe concentrarsi sul miglioramento della tecnica normativa, garantendo maggiore chiarezza, proporzionalità e certezza del diritto.

Il confronto — ampio, trasversale e tecnicamente approfondito — conferma che, in una materia così sensibile, l’equilibrio tra tutela delle vittime e garanzie dell’imputato non è solo un principio astratto, ma costituisce la condizione stessa per una legge efficace, solida e rispettosa dei fondamenti dello
Stato di diritto

In definitiva, il confronto che si è sviluppato attorno alla riforma dell’art. 609-bis dimostra quanto sia
fuorviante ridurre una materia così delicata a un terreno di scontro politico perché non vince chi mette la bandierina sul testo normativo.

Le vittime di violenza sessuale non hanno bisogno di polemiche, né
di battaglie identitarie: hanno bisogno di una legge chiara, applicabile, giusta, capace di tutelare la loro
autodeterminazione senza indebolire le garanzie del processo penale

È su questo terreno — quello
della buona tecnica normativa, della certezza del diritto e dell’efficacia concreta delle tutele — che il
Parlamento dovrebbe concentrarsi, perché in gioco non c’è la rendita di posizione di una parte politica,
ma la dignità e la sicurezza delle persone più vulnerabili… e quella che, non per altro, viene definita la “verità processuale” che non sempre rappresenta la “verità dei fatti” anche dopo tre gradi di giudizio.

In questo senso, a sommesso parere di chi scrive, ogni miglioramento possibile della norma non è un cedimento, ma un dovere istituzionale verso le vittime di un reato tra i più odiosi e devastanti.

Danilo Di Stefano: *Consigliere comunale di Fratelli d’Italia Empoli, Responsabile del dipartimento sicurezza e
legalità di Fratelli d’Italia Provinciale Firenze, già commissario capo della Polizia di Stato

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