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STRISCIONE ORRIBILE OFFENDE LA MEMORIA DI SERGIO RAMELLI. ECCO PERCHÈ QUELLA STORIA FA ANCORA PAURA

di Roberto Lobosco
26 Novembre 2025
In Politica
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STRISCIONE ORRIBILE OFFENDE LA MEMORIA DI SERGIO RAMELLI. ECCO PERCHÈ QUELLA STORIA FA ANCORA PAURA
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STRISCIONE ORRIBILE OFFENDE LA MEMORIA DI SERGIO RAMELLI. ECCO PERCHÈ QUELLA STORIA FA ANCORA PAURA

Lunedì 24 novembre 2025.
A Susa, dove si presentava un libro su Sergio Ramelli, è stato esposto uno striscione che recitava: “Fascio morto, concime per l’orto”.

Alla frase si aggiungeva l’immagine di una chiave inglese, strumento usato nell’aggressione contro Sergio Ramelli da parte dei militanti di Avanguardia Operaia nel lontano 1975. Sergio fu ucciso dopo mesi di persecuzioni e violenze perché etichettato come “fascista” per aver scritto un tema sulle Brigate rosse, definendole una organizzazione terroristica, e per il fatto di frequentare una sezione del Movimento Sociale Italiano

Morì dopo 45 giorni di agonia. Alla notizia della sua morte la sala consiliare di Milano applaudì compiaciuta e Dario Fo commentò:” In fondo è morto solo un fascista”. Cinquanta anni dopo assistiamo ancora a questi orrendi striscioni. Cinquanta anni dopo l’Anpi scrive ancora comunicati criticando la scelta di ricordare questo omicidio, si oppone alle richieste di intitolare strade o piazze a Ramelli perché sarebbe un’offesa alla memoria democratica e considera la partecipazione di amministratori pubblici a eventi legati a Ramelli come incompatibile con i loro incarichi istituzionali. Gli antifascisti imbrattano le targhe a lui intitolate e nelle librerie capovolgono i libri.

Ma perchè tutto questo?

Perché questa vicenda fa così paura? Il caso Ramelli è paradigmatico, racchiude in sé l’essenza dell’antifascismo militante e operativo, spiega meglio di qualsiasi altro documento o testimonianza un segmento della nostra storia nazionale con cui è doloroso fare i conti perché mette ognuno davanti alle proprie responsabilità. L’Italia degli anni ’70 era un Paese in cui bastava poco per essere aggrediti o uccisi. Era pericoloso non aderire alla narrazione dominante, partecipare a un comizio o affiggere un manifesto.

Era pericoloso vestirsi con il giubbotto di pelle o con l’eskimo o comprare il giornale “sbagliato”

In quell’ Italia si combatteva una guerra civile strisciante e non dichiarata che sfociò poi nel terrorismo. Erano anni in cui se eri identificato come “fascista” la tua vita non valeva niente, i dottori o gli infermieri ideologizzati ti lasciavano le finestre aperte in ospedale mentre eri ricoverato per farti venire la polmonite e poteva succedere che gli addetti di un’ambulanza si rifiutassero di portarti in ospedale dopo un’aggressione.

Anni in cui era impossibile esprimere un’opinione liberamente o dichiararsi anticomunista sennò rischiavi processi pubblici, umiliazioni e pestaggi. Era l’Italia della “contestazione”

In Italia il ’68 durò dieci anni, “dieci anni di illusioni”, come titola un bel libro di Michele Brambilla. Quella rivolta giovanile poi sfociata nel terrorismo ha prodotto, oltre ad un certo clima di intolleranza, anche tante gravi conseguenze sociali e culturali. Portò alla decadenza dei costumi e alla creazione di una società egoista, edonista e individualista. Al posto di una borghesia forse un pò bigotta ma sostanzialmente onesta, con un senso dello stato e un’ etica non solo rivolta agli affari, si affermò una borghesia sradicata, spregiudicata e “d’assalto”.

E infatti non è un caso che quei contestatori fossero tutti borghesi, figli di giudici, politici, notai, medici, giornalisti e imprenditori

E divennero poi la classe dirigente di quel sistema che volevano cambiare e a cui invece erano profondamente organici. A causa del ’68 il corpo della donna è stato mercificato e sessualizzato come mai era avvenuto in precedenza. La scuola è stata rovinata per sempre, il merito non ha avuto più valore, il linguaggio si è volgarizzato e la maleducazione è diventata sinonimo di libertà.

Fu una rivolta contro la figura del “Padre” e contro ogni forma di autorità intesa come religione, Stato e famiglia. Se il “Sessantotto” durò così tanto ed ha portato a questi risultati fu perché venne sostenuto, giustificato e alimentato dal Mainstream, dai politici, dai grandi giornali, dai potenti editori e dagli intellettuali.

Probabilmente perchè le finalità erano le stesse dei sessantottini, quelle finalità di cui ci parlava Pier Paolo Pasolini, e che consistevano nel voler distruggere i valori tradizionali in quanto rappresentavano l’ultimo argine contro la nascita di una società consumistica

È in questo contesto di forte scontro ideologico e di violenza che si inserisce l’omicidio e la storia di Ramelli.

Una storia che fa ancora paura alla sinistra antifascista per tanti motivi. In primo luogo per il profilo della vittima.

Sergio era un ragazzo mite e dalla faccia pulita

Non un estremista o un violento. Non un reduce del fascismo storico o della Repubblica Sociale Italiana ma uno studente nato nel 1956, undici anni dopo la fine della guerra. Tutto ciò stride con l’immagine del fascista violento e pericoloso, con l’idea del mostro. In un tempo poi dove per essere identificati come fascisti bastava poco. Fascisti erano i poliziotti, i liberali, i monarchici, i conservatori e tutti coloro che non aderivano alla logica comunista e della lotta di classe.

E poi c’è sempre chi è più antifascista di un altro

E allora per gli stalinisti anche i troskisti erano fascisti. E per i brigatisti lo erano anche i socialisti o i sindacalisti della CGIL. In secondo luogo la storia di Ramelli fa ancora paura perché se la si studiasse si scoprirebbe che i suoi assassini non conoscevano neanche la vittima e l’omicidio fu motivato solo dal furore ideologico e da una logica politica.

Lo uccidono perché incapaci di rispettare la vita umana, perchè lo identificavano con il nemico, perchè disumanizzavano e demonizzavano l’altro da sè

Ci vollero dieci anni per arrivare a una sentenza, e il caso rivelò una rete di complicità e connivenze politiche che hanno reso la storia ancora più spaventosa.

In terzo luogo questo omicidio fa ancora paura perchè dalle carte processuali emerge chiaramente che quel clima di violenza e di odio aveva un responsabile: l’antifascismo militante che sfocia necessariamente nel terrorismo politico e la cui strategia era l’eliminazione di ogni avversario politico in nome della rivoluzione.

Infine, la storia di Ramelli fa oggi più paura che mai perché ci riporta al presente e ci mette in guardia sul rischio di riavvolgere le lancette della storia e tornare a quegli anni che abbiamo descritto.

È un monito e un insegnamento che qualcuno non vuole ascoltare perché probabilmente interessato a creare una situazione di caos e alzare il livello dello scontro politico

Dopo 50 anni dalla sua morte le dinamiche di odio ideologico e l’incapacità di pacificare non sono poi molto cambiate e continuano a manifestarsi. Abbiamo visto ad esempio le reazioni e le giustificazioni seguite all’omicidio di Charlie Kirk. Abbiamo visto come ogni “10 febbraio” gli antifascisti celebrano “le foibe”, ovvero la pulizia etnica subita dagli italiani per mano titina e comunista. Assistiamo alle violenze dei propal.

Oggi viviamo un’altra emergenza antifascismo che ha tanti, troppi punti in comune con gli “anni di piombo”

La vicenda di Sergio Ramelli fa ancora paura perchè permette di comprendere cosa è davvero l’antifascismo militante.

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Tags: AntifascismoIN EVIDENZASERGIO RAMELLIStriscione offensivoVIOLENZA
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