Riforma della Giustizia: separazione delle carriere e garanzia di terzietà del giudice
Il Governo ha varato una riforma costituzionale della giustizia che tocca un punto cruciale del nostro ordinamento: la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante.
Si tratta di un intervento che non modifica soltanto l’architettura giudiziaria, ma intende ridefinire il rapporto tra poteri dello Stato e rafforzare le garanzie del processo penale, nell’ottica di una giurisdizione più equa e davvero terza
Il fulcro della riforma è proprio la creazione di due distinti Consigli Superiori della Magistratura: uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri. Una scelta che, se approvata definitivamente, sancirà in Costituzione quella che finora era solo una richiesta avanzata da numerosi giuristi, a partire da Giovanni Falcone, che già negli anni ’80 sottolineava come “la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste.”
La separazione delle carriere risponde a un’esigenza di chiarezza e di equilibrio tra accusa e difesa nel processo penale. In un sistema in cui il pubblico ministero e il giudice appartengono allo stesso ordine, è lecito chiedersi se la terzietà del giudice possa essere realmente garantita
Lo aveva spiegato anche Valerio Onida, già presidente della Corte costituzionale: “Se si vuole una giurisdizione davvero ‘terza’, occorre una netta distinzione tra chi accusa e chi giudica. La separazione delle carriere può essere uno strumento per realizzare questa ‘terzietà’.”
Non è solo una questione teorica. La riforma tocca anche l’equilibrio costituzionale dei poteri. Già il presidente Giovanni Leone sosteneva che “il pubblico ministero è organo del potere esecutivo
Un particolare corpo di polizia giudiziaria è posto alla sua esclusiva dipendenza.” L’attuale situazione, che vede il PM inserito nell’ordine giudiziario, crea un ibrido istituzionale che la riforma vuole chiarire e ricondurre a logiche più limpide.
Una posizione, questa, ribadita per anni anche da Silvio Berlusconi, che vedeva nel pubblico ministero “l’avvocato dell’accusa”, figura che dovrebbe avere la stessa dignità e gli stessi diritti dell’avvocato della difesa, entrambi posti su un piano di parità davanti a un giudice davvero terzo e imparziale. Un modello più simile a quello accusatorio anglosassone, in cui le parti in causa si confrontano davanti a un arbitro super partes.
Sul piano politico, la riforma ha anche fatto emergere le prime evidenti crepe nel cosiddetto campo largo
Al di là delle pendenze giudiziarie che in queste settimane stanno colpendo il Partito Democratico, si è registrata una significativa differenziazione di posizioni tra i partiti dell’opposizione. Italia Viva, pur non avendo avuto il coraggio politico di sostenere la riforma con un voto favorevole, si è astenuta, prendendo di fatto le distanze da chi ne ha fatto una questione di principio ideologico. Più chiara la posizione di Carlo Calenda, che con Azione ha votato apertamente a favore della riforma, riconoscendo la necessità di garantire un assetto più moderno e imparziale della giustizia.
In conclusione, la riforma proposta dal Governo si muove in continuità con un pensiero giuridico autorevole e con l’intento di rafforzare il principio di terzietà del giudice, ponendo fine all’ambiguità di ruoli tra chi accusa e chi giudica
Un cambiamento profondo, che ha l’obiettivo di restituire fiducia e trasparenza al sistema giudiziario italiano — e che sta già mettendo alla prova la coesione delle opposizioni.
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