Quale delle due ipotesi è più giusta?
Le toghe fanno opposizione? oppure l’ opposizione non sa fare il proprio lavoro e lo delega?
Il parere della Corte di Cassazione sul DDL Sicurezza è destinato a far discutere
Non è una sentenza, non blocca l’applicazione della legge, non ha effetti vincolanti. Ma il suo peso è tutt’altro che trascurabile, perché parla chiaro: il decreto sarebbe nato senza vera urgenza, sarebbe confuso nei contenuti e, in più punti, sproporzionato nelle pene.
Si può essere d’accordo o no, ma una cosa è certa: questo intervento della magistratura arriva a valle di un processo parlamentare regolare, in doppia lettura, con voto di fiducia. In altri termini, la legge c’è, è pienamente vigente, ed è il frutto di una volontà politica chiaramente espressa.
E questo non è un dettaglio
Che il DDL Sicurezza sia una legge dura è evidente. Ma è anche una legge figlia di un mandato politico chiaro, di una richiesta diffusa – piaccia o no – di più ordine, più tutela dell’autorità pubblica, meno indulgenza verso chi, con azioni eclatanti, pretende di rappresentare il dissenso al di fuori delle regole.
Occupazioni abusive, blocchi stradali, vandalismi travestiti da protesta sociale: su questi temi l’opinione pubblica è più divisa di quanto lo siano i talk show
E proprio per questo, la legittimazione del Parlamento dovrebbe pesare di più di quella di un organo tecnico, che per quanto autorevole, non ha né investitura popolare né mandato rappresentativo.
Il punto però non è solo giuridico. È culturale, è politico nel senso alto. Cosa succede quando l’opposizione non riesce più a fare opposizione?
Quando – di fronte a norme controverse – non riesce a mobilitare il consenso, a fare battaglia nelle piazze o nelle urne, a difendere le sue priorità con la forza della persuasione?
Succede che a riempire quel vuoto, a coprire quell’impotenza, arrivi la magistratura. Che, per carità, fa il suo dovere. E in certi passaggi – come sul giro di vite contro la cannabis – coglie davvero elementi di illiberalità difficili da difendere. Ma quando il rilievo tecnico scivola nel giudizio politico, quando si dice che il decreto non è urgente “perché già discusso”, o che certe pene sono “eccessive”, si entra in un terreno minato.
Perché allora la domanda non è più solo “è costituzionale?”, ma diventa: chi decide cosa è giusto?
E soprattutto, cosa accade se chi è chiamato ad applicare la legge, finisce per valutare – e magari disinnescare – quelle che non condivide?
In Italia, c’è chi occupa case senza titolo, chi blocca linee ferroviarie, chi deturpa opere pubbliche in nome di un dissenso che spesso si traduce in illegalità. E se un governo, attraverso il Parlamento, decide di reagire con fermezza, è giusto che sia un organo tecnico a decretarne la legittimità morale?
Il rischio è che, più che difendere la Costituzione, si finisca per difendere una certa idea della società, con le sue tolleranze selettive e le sue indignazioni a senso unico
E quando la giustizia sembra supplire alla politica, la Costituzione rischia di perdere non solo equilibrio, ma anche credibilità.
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