Una bella matassa da sbrogliare

Il nuovo governo alle prese con i problemi che mergono dai dati statistici

Povertà – Qualche giorno fa la Caritas ha pubblicato il suo XXI Rapporto su povertà ed esclusione sociale, intitolato “L’anello debole”. Il rapporto afferma che in Italia nel 2021 circa due milioni di famiglie hanno vissuto sotto la soglia di povertà assoluta. Sarebbero coinvolte circa cinque milioni e seicentomila persone equivalenti al nove e quattro per cento della popolazione. I dati ricalcano quelli massimi toccati nel 2020. Al Sud Italia la percentuale è più alta ed è in crescita dal 2020 (10% dal 9,4%). Al Nord la percentuale è più bassa e scende rispetto al 2020. (6,7% da 7,9%)”. Questi dati non sorprendono in quanto la povertà in Italia cresce dal 2008, insieme ad un PIL che è sceso del 1,2% da quell’anno. In quel periodo l’ISTAT registrò 2,11 milioni di poveri assoluti. Numero che è più o meno raddoppiato fino ai massimi del 2020.

Le statistiche parlano chiaro

Diversa è anche la soglia di sopravvivenza sotto la quale si cade in povertà. Secondo l’ISTAT Al Nord la soglia procapite e di 817 Euro mensili al Sud si arriva a 544 Euro mese. Al Centro ci si attesta sui 733 Euro. La percentuale della popolazione che si attesta su questa soglia è in aumento nel 2021, (11,1 da 10.1 nel 2020) e comprende circa 2,9 milioni di famiglie. Povertà stabile ma più persone sulla soglia di sopravvivenza, la tendenza è comunque negativa.  Rispetto alle fasce di età la povertà colpisce più i giovani che gli anziani. Il 14,2 % dei minori sono poveri assoluti contro il 5,3% degli over 65.  A questo dobbiamo aggiungere i dati di Confindustria. Nel 2012 gli operai figli di operai sono stati circa il 62 per cento mentre nel 1999 erano stati il 51 per cento. 

L’ascensore sociale non funziona

Questi dati negativi indicano che l’ascensore sociale non funziona. Chi sta alla base della piramide sociale li rimane. Non riesce a salire.  Cause ed effetti della povertà spesso si sovrappongono e si confondono. Poche risorse economiche rendono difficile una buona e istruzione ed un completo dispiegarsi del potenziale umano. Viceversa poca istruzione comporta una limitata possibilità di crescere in ambito lavorativo ed aumenta la vulnerabilità sociale ed economica.  Si chiarisce inoltre che i poveri non hanno fiducia nello Stato e nell’Istruzione. Al sud va peggio perché l’abbandono scolastico viaggia intorno al 20 per cento. La famiglia, primo ammortizzatore sociale in assoluto nel nostro paese soffre particolarmente.  Le statistiche dicono che il rischio povertà aumenta col numero di figli. Con un figlio il rischio povertà è all’otto per cento. Con tre figli il rischio sale al 23 per cento. E una spia di disagio notevole ed ignorata dalla politica. 

Disparità di genere

Rispetto all’istruzione solo il 30 per cento delle donne con diploma di scuola media inferiore tra i 25 ed 34 anni lavora. Per gli uomini la percentuale è più che doppia, si arriva al 64 per cento.  Anche la differenza di genere pesa. Anche se è facile capire che gli uomini con basso tasso scolare hanno comunque più facile accesso ai lavori più faticosi. Aumentano anche i NEET (giovani che non studiano, non lavorano e non si formano). Secondo EURISPES  in italia  in percentuale sono circa il 24 per cento.  E il numero aumenta nel Meridione. Un numero molto alto, peggio di noi , tra i paesi attenzionati, solo Macedonia, Montenegro e Turchia. La situazione peggiora per le ragazze che sono il 25 per cento, mentre i ragazzi sono il 21 per cento circa.

Figli e povertà

Tutto questo per dire che cosa. La povertà non può essere una questione di famiglia. Avere dei figli non può essere la discriminante tra ricchi e poveri. I giovani e i lavoratori sono in percentuale molto più poveri degli anziani e pensionati. Uno squilibrio esagerato e ingiustificato. Molti giovani, troppi, non studiano, non si formano e non lavorano.  Va peggio al Meridione piuttosto che al settentrione. Va molto peggio per le donne rispetto agli uomini. Questi dati devono essere messi all’attenzione della politica affinché prima di tutto focalizzi l’attenzione sui temi dell’istruzione, del lavoro e della parità di genere, rispetto a quelli delle rendite e delle pensioni. Questi dati infine riaccendono i riflettori su un tema già dibattuto. Nella nostra società sono molti gli anziani e pochi i giovani. Nei sindacati i pensionati sono più dei lavoratori. 

La matassa da sbrogliare

Molti elettori sono pensionati e formano un blocco di consenso essenziale per tutte le forze politiche, rispetto ai giovani dei quali una bella fetta non vota.  Tutto questo va oltre ed al di sopra della dialettica sulla capacità di espressione del consenso elettorale dei giovani rispetto agli anziani.  I giovani dovrebbero guardare in prospettiva. Gli anziani guardano ai diritti acquisiti. Giovani o anziani. Lavoro o pensioni. Sviluppo o rendite. Qualcuno arriva a dire che “La Repubblica è fondata sul lavoro, non sulle pensioni”. Il tema è sul tavolo e qualcuno si sta ponendo la domanda. E’ necessario aprire il voto alla platea degli elettori più giovani affinché la politica sia attirata a ricercare il loro consenso? Potrebbe questa riforma indurre a maggior attenzione ai temi dell’istruzione e del lavoro propri delle nuove generazioni? Quali vantaggi porterebbe questa svolta politica allo sviluppo futuro ed al benessere della nazione? 

Il nuovo governo avrà anche questa matassa da sbrogliare.

 

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