Perché chiedere nuove tasse è una scorciatoia pericolosa: l’Italia è già spremuta fino all’osso
Nel dibattito politico sulla manovra economica domina una distorsione evidente: una parte della sinistra continua a proporre nuove tasse, patrimoniali e contributi straordinari come se l’Italia fosse un Paese con ampi margini di prelievo, quando in realtà è già uno dei sistemi fiscali più pesanti dell’intero Occidente.
Chi insiste con questa linea sembra ignorare le nuove regole europee e, soprattutto, lo stato reale dei contribuenti. La pressione fiscale italiana è talmente alta che imprese e lavoratori somigliano sempre più ad agrumi spremuti per anni, fino ad arrivare al bianco della buccia: oltre non esce succo, esce solo amaro.
I numeri lo dimostrano: secondo l’OCSE, la pressione fiscale nel 2023 ha raggiunto il 42,8% del PIL, contro una media OCSE del 33,9%. L’ISTAT segnala inoltre che nel 2024 il peso complessivo delle imposte è salito al 42,6%, confermando un trend tra i più alti d’Europa. Anche il costo fiscale sul lavoro – la famosa tax wedge – colloca l’Italia in cima alla classifica dei Paesi sviluppati, ben sopra Germania, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti. Con un tale sovraccarico, parlare di ulteriori tasse come soluzione ai problemi di finanza pubblica appare non solo miope, ma disancorato dalla realtà economica del Paese
Eppure proprio questo è il punto su cui una parte della politica insiste: nuove imposte per finanziare nuove spese, bonus, sussidi e redistribuzioni che oggi non sono più sostenibili.
Lo spunto nasce da un’osservazione semplice: chi continua a chiedere patrimoniali “fa finta di non capire” che le regole fiscali europee sono cambiate. Dal 2024, infatti, l’Italia non può più aumentare la spesa pubblica senza indicare esattamente come coprirla. Le nuove norme dell’UE sono molto chiare: ogni euro di nuova spesa deve corrispondere a un euro di nuove entrate (tasse) o a un euro di tagli.
Non esiste più la possibilità di manovre espansive da 30 o 40 miliardi basate sul deficit, come avvenuto per anni
Il cuore del nuovo meccanismo è la spesa primaria netta: non si guarda più solo al deficit annuale, ma a quanto aumenta la spesa reale dello Stato negli anni successivi. I piani di bilancio diventano pluriennali, da 4 a 7 anni, con salvaguardie sul debito e controlli automatici.
Chi sfora paga sanzioni. Per la prima volta, Bruxelles non limita genericamente i conti, ma misura in modo puntuale la crescita della spesa: se cresce troppo, se non è finanziata o se non è accompagnata da riforme, il Paese finisce sotto procedura.
È un cambio culturale: il tempo dei bonus facili è finito
E proprio sui bonus sta la ferita più profonda degli ultimi anni. L’Italia porta ancora sulle spalle il peso enorme del Superbonus 110% e degli altri incentivi edilizi: secondo la Corte dei Conti, la somma dei bonus edilizi dal 2020 al 2024 supera i 229 miliardi di euro, di cui oltre 165 miliardi solo per il Superbonus. Una misura nata con buone intenzioni ma che, così concepita, ha spalancato la porta a gonfiature, abusi e frodi, complice un sistema privo di controlli adeguati. Questo enorme debito accumulato oggi limita qualsiasi spazio di manovra e obbliga il Paese a una stagione di disciplina fiscale che non si può evitare.
In questo quadro, sostenere ancora che la soluzione siano nuove tasse su patrimoni immobiliari, risparmi o redditi significa ignorare due verità:
1. L’Italia ha già una delle tassazioni più alte al mondo.
2. La classe media produttiva è quella che ha sempre pagato il prezzo più alto.
Lo si è visto quando alcuni governi hanno definito “ricco” chi possedeva la prima casa, introducendo l’ICI sulla prima abitazione: un esempio emblematico di come, in Italia, la ricchezza da colpire non sia mai quella dei grandi patrimoni, ma quella di chi lavora e risparmia
Negli ultimi anni, al contrario, la riduzione dell’IRPEF ha finalmente alleggerito – anche se di poco – proprio questa fascia di redditi, segnando una distinzione politica importante: da un lato, chi pensa di risolvere i problemi aumentando il prelievo; dall’altro, chi ritiene che il nodo sia la spesa inefficiente, non la mancanza di entrate.
La sfida dei prossimi anni, dunque, sarà esattamente questa: ridurre sprechi, rivedere gli incentivi, rendere efficiente la pubblica amministrazione e contenere la spesa improduttiva
Le nuove regole europee ci obbligano a farlo. E dopo l’esperienza del Superbonus, che ha bruciato risorse come poche altre misure nella storia repubblicana, non ci saranno più margini per politiche di consenso finanziate in deficit.
Per molti italiani, la questione non è più “quante tasse paghiamo”, ma “quanto dello Stato che finanziamo funziona davvero”
La risposta, oggi, è evidente: non abbastanza. Ed è da qui che bisogna ripartire. Non dalla spremitura infinita degli stessi contribuenti.
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