L’uomo post-mortale

 

A seconda dei punti di vista, quella che segue potrebbe essere la storia di un sogno o il racconto allucinato di un incubo. Gli elementi essenziali di questa visione onirica sono rappresentati dalla radicale messa in discussione di quelli che per oltre duemila anni sono stati gli elementi fondanti della antropologia occidentale: l’idea di caduta e di redenzione, di smarrimento e di riscatto, di morte e resurrezione, l’idea del corpo come tempio dello spirito, inevitabilmente destinato alla corruzione, a farsi polvere, per rinascere trasfigurato in una veste nuova e imperitura. Questa è la storia della umanità post-mortale del XXI secolo. Per coglierne i tratti salienti, per lo più ignoti alla maggioranza dei nostri contemporanei, non occorre andare troppo lontano. I principi essenziali della antropologia transumanista sono contenuti oggi in un manifesto limpidissimo e provocatorio: la «Letter to Mother Nature» di Max More. Si tratta di un testo, in stile epistolare, indirizzato alla figura antropomorfa cui, per semplicità, si attribuisce l’onore e la responsabilità di aver plasmato l’ordine naturale del mondo. L’epistola esordisce in un tono dimesso, che tuttavia è un chiaro espediente retorico, come dimostra il suo rapido trasmodare dall’affettata mitezza iniziale in un prosieguo e in una chute di ben altro tenore. Da principio, infatti, Madre Natura viene solennemente omaggiata per aver realizzato un progetto solido e di vasto respiro: niente meno che la creazione dell’umanità, ovvero l’invenzione, a partire da meri aggregati di atomi auto-replicantisi, di mammiferi dotati di trilioni di cellule, muniti per di più di empatia e autocoscienza. Ma come in tutti i pamphlet polemici che si rispettino, la laudatio serve soltanto per innescare la critica più veemente e aspra contro le mancanze del Grande Demiurgo: il mammifero intelligente creato da Mother Nature in realtà è un inganno: un giocattolo apparentemente perfetto, minato da imperfezioni profonde e congenite. Le falle presenti nel progetto, i punti deboli e i difetti di funzionamento dell’homo sapiens vengono elencati minuziosamente, senza sconti: la vulnerabilità alle malattie e alle ferite, la morte come inevitabile orizzonte esistenziale, la capacità di funzionare esclusivamente in contesti ambientali circoscritti, la limitata capacità di memoria la scarsa capacità di padroneggiare gli impulsi naturali. Insomma, un disastro: un organismo fragile e malato, con la capacità di pensare e di sognare, ma oppresso e castrato dall’incubo della transitorietà. Da qui le rivendicazioni finali, che altro non sono che una ribellione contro la natura umana, vista come un limite e una gabbia soffocante: gli esseri umani non accetteranno più di vivere sotto la tirannia del tempo e della morte; il ricorso alla biotecnologia consentirà all’uomo di beneficiare di una vitalità permanente, eliminando una volta per tutte la data di scadenza assegnata ab origine a ogni individuo; l’uomo non tollererà più di essere il risultato casuale di un cieco processo evolutivo, ma, mediante i progressi della scienza e delle tecnica, potrà adattare e sviluppare le proprie funzioni fisiche e mentali, superando i confini imposti dalla struttura organica di partenza.

L’autore di questa lettera non lascia niente al caso, a cominciare dal nome: Max More, infatti, è solo un nome di battaglia, che il fondatore dell’Extropianism e della rivista Extropy: the Journal of Transhumanist Thought, entrambe colonne portanti della ideologia transumanista, ha scelto di darsi per chiudere i conti con il suo io precedente. L’originario cognome O’Connor non faceva al caso: troppo irlandese, troppo radicato nel tempo e nello spazio, troppo rivolto al passato e alle sue mortifere tradizioni, piuttosto che al futuro prossimo dell’umanità, con tutte le sue promesse di emancipazione tecnologica. Dunque More, sinonimo di more lifemore intelligencemore freedom: niente di più semplice ed efficace, nella sua sconfortante banalità, per un uomo che si presenta come il gran sacerdote di un movimento il cui obiettivo è niente meno che la totale liberazione dell’uomo dal suo sostrato biologico, la definitiva messa da parte dello Zoon che è in ciascuno di noi, attraverso tecniche che solo alla grande massa dei nostri contemporanei, fruitori compulsivi e ammirati di beni tecnologici, vissuti come fenomeni magici e irresistibili nella loro radicale componente misterica, appaiono roba da fantascienza: la fusione tra uomo e macchina (già prefigurata da Tatsuo Yoshida, il creatore del cartone cult “Kyashan, il ragazzo androide”, nei remoti anni Ottanta); il caricamento della mente e della coscienza in un hardware esterno, con la promessa di vivere in eterno affrancanti dalla dimensione carnale e caduca; in fondo, l’idea di trasfondere la coscienza di ognuno di noi e quindi l’identità, la storia, i ricordi, il proprium irriducibile di ogni persona in un codice, in un insieme complesso di dati tradotti in forma digitale.

Fantascienza?

Solo per gli sprovveduti, per la stragrande maggioranza dei non addetti ai lavori. Basti pensare che i guru della Silicon Valley da anni si occupano solo di questo: da Peter Thiel, cofondatore di PayPal e azionista di punta di Facebook, alla fondazione Calico creata da Google per risolvere il problema dell’invecchiamento e della morte, a Eric Schmidt, che ha più volte prefigurato una sorta di ibrido uomo-androide mediante uno sviluppo parossistico delle cosiddette wearable technologies. Senza dimenticare i critici, come Elon Musk e Bill Gates, allarmati dal rischio di una estinzione della specie umana provocata dall’avvento di una superintelligenza artificiale.

All’origine di tutto vi è un’intuizione, ormai vecchia di qualche decennio, divenuta ben presto teoria e credo scientifico, con i suoi apostoli e le inevitabili varianti dottrinali. Si tratta della prefigurazione di un preciso momento in un futuro ormai prossimo, di una sorta di punto di non ritorno, a partire dal quale i progressi raggiunti nella ricerca scientifica, in particolare nell’ambito dell’intelligenza artificiale, renderanno possibile la creazione di macchine più intelligenti degli esseri umani e la stessa sussunzione della natura organica da parte della tecnologia. È l’idea del rapido approssimarsi di una singolarità essenziale nella storia del genere umano, oltre la quale la natura umana e la vita sulla Terra cambieranno per sempre in maniera irreversibile. Nel 1993 il matematico e autore di fantascienza Vernor Vinge, intervenendo a un convegno della NASA, presentò una relazione ritenuta oggi unanimemente una pietra miliare, se non addirittura l’atto di nascita, della teoria della singolarità tecnologica. Nel suo intervento, Vinge sostenne senza esitazioni che nel giro di pochi decenni l’uomo avrebbe avuto gli strumenti tecnologici per dar vita a una intelligenza artificiale di natura superiore, con il risultato che l’era umana sarebbe giunta definitivamente a conclusione. Il che, nell’ottica dell’autore de I naufraghi del tempo, può significare sia l’annichilimento della specie umana ad opera delle macchine, sia la comparsa di un uomo nuovo, di un ibrido uomo-macchina, con il definitivo superamento dei difetti congeniti della nostra specie. Sul punto l’autore non si sbilancia.

Decisamente ottimistica, al contrario, è la visione dell’attuale profeta della teoria della singolarità, una delle figure più inquietanti e visionarie della Silicon Valley, a dispetto di un’apparenza dimessa da eterno contabile appena sfiorato dalla giovinezza. A partire dalla premessa che qualsiasi processo evolutivo non è mai un fenomeno cieco, generatore di meraviglie e di orrori, ma è un fenomeno sistematico e razionale, proteso alla creazione di soluzioni ordinate e desiderabili, il direttore del dipartimento di engineering di Google afferma che l’approdo definitivo della vicenda umana sarà rappresentato dalla creazione di macchine e di sistemi di intelligenza artificiale perfetti, reso inevitabile dallo sviluppo esponenziale della tecnologia. La profezia di Kurzweil non è priva di riferimenti temporali: la singolarità dovrebbe realizzarsi intorno al 2047. Per quella data, il progresso inarrestabile della ricerca tecnologica, unito alla costante miniaturizzazione dei devices messi in circolazione, produrrà effetti dirompenti: i computer non saranno più oggetti esterni, ma diverranno parte del nostro corpo, del nostro cervello, dello stesso flusso sanguigno. Avrà inizio l’era dell’ibrido uomo-macchina, e il nostro cervello, una macchina infinitamente complessa ma fragile, perché carnale e soggetta al tempo, potrà finalmente mettere da parte le sue debolezze e i suoi difetti congeniti, eternizzandosi. Cesseremo di essere creature deboli e primitive, macchine carnali la cui potenza razionale è messa continuamente a repentaglio dall’hardware biologico che la alimenta. L’uomo diverrà pura mente, puro pensiero, creatura finalmente disincarnata, sottratta per sempre alla minaccia della morte. La singolarità, in altre parole, potrà dirsi compiuta quando la mente e la coscienza umana, fondendosi con la tecnologia esistente, daranno vita a un uomo nuovo, affrancato dalla schiavitù del corpo e dai limiti della sua natura organica.

Se questo è lo scenario ritenuto certo e inevitabile dalle menti più brillanti dell’High Tech, non c’è da stupirsi se molti nostri contemporanei, già oggi, si rifiutino di morire; e se, giunti alle soglie del passo fatale, optino per una soluzione che, sperabilmente, dovrebbe traghettarli più o meno integri sino al tempo in cui la singolarità, realizzandosi, trasfigurerà la natura umana. È qui che entra in gioco il “ciclo del freddo”, applicato non al pesce, ai farmaci o ai latticini, ma ad “oggetti” di tutt’altra natura.

Non a caso, uno dei luoghi simbolo della ideologia transumanista è certamente la Alcor, la più grande struttura per la crioconservazione oggi esistente, la cui sede sorge nei pressi di Phoenix, in Arizona. «Death is wrong» potrebbe essere il motto della Alcor, il cui guru e Chief Executive Officer è per l’appunto l’autore della Letter to Mother Nature. Chi stipula un contratto con la Alcor è posto dinanzi a una scelta fondamentale, in larga misura determinata dalle diverse disponibilità finanziarie di partenza: testa o corpo?

Altrimenti detto, per 200.000 dollari la Alcor  si impegna a crioconservare l’intero corpo del paziente, mantenendolo in uno stato di sospensione sino a un futuro, anelato risveglio. Per “soli” 80.000 dollari, il cliente acquista il diritto a diventare un cosiddetto neuro-patient: la sola testa, separata dal corpo, viene pietrificata, crioconservata e custodita all’interno di un cilindro d’acciaio, in attesa del giorno in cui sarà possibile “uploadare” il cervello e con esso l’intera coscienza in una sorta di corpo artificiale nuovo di pacca. Oggi, essere ammessi alla Alcor come cadaveri in sospensione è meno difficile di un tempo, specie da quando ai clienti è stata offerta la possibilità di pagare i costi di “iscrizione” mediante versamenti periodici caricati sulle polizze di assicurazione sulla vita. In tal modo, il defunto che aspira all’eternità non è costretto a lasciare debiti dietro di sé, obbligando gli eredi a pagare per una opzione funeraria non necessariamente condivisa, con il rischio che vi siano contratti non onorati e cadaveri crio-sospesi improvvisamente resi orfani.

In ogni caso, il successo della procedura dipende in gran parte dal tipo di morte e dalla sua maggiore o minore prevedibilità. Il cancro è in cima alla lista, come forma di morte di gran lunga preferibile. Alla Alcor, infatti, considerano il tumore in fase terminale una sorta di benedizione tanatologica, un ottimo viatico per una perfetta crioconservazione e per la futura, sperata rinascita. Assai meno preferibile è invece l’attacco cardiaco, a causa della sua scarsa prevedibilità. Peggio ancora, l’aneurisma, in ragione dei danni irreversibili che può provocare all’encefalo, vanificando il desiderio del cliente di sopravvivere come neuro-patient. In fondo alla lista, come causa di morte assolutamente da scongiurare e causa di inevitabile risoluzione del contratto, figurano ovviamente gli incidenti di qualsiasi specie.

Il cliente che ha la fortuna di essere preso in carico in tempo utile dal team della Alcor, nel caso in cui sia un body-patient, viene sottoposto alla seguente procedura: i tecnici della Alcor lo collocano su un letto da sala operatoria, praticano dei fori nel cranio per valutare la condizione dell’encefalo, aprono il torace e collegano le principali vene e arterie a un impianto per la trasfusione allo scopo di eliminare il sangue e i vari liquidi corporei, sostituendoli con una sorta di liquido anti-gelo. Solo in tal modo è possibile evitare la formazione di cristalli di ghiaccio, il principale ostacolo che può vanificare la futura resurrezione del paziente in uno stato di sana  e robusta costituzione. Alla Alcor sono convinti che i pazienti sottoposti a tale intervento non siano affatto morti, ma che in realtà resuscitino un attimo dopo la constatazione medico-legale del decesso; coloro che vengono sottoposti a crioconservazione con i corpi e/o le teste ancora integri, non sfiorati dalla corruzione, non sono altro che esseri umani resuscitati, benché destinati a restare in stand-by per un lasso di tempo indefinito. In altre parole, la morte non interviene subito dopo la cessazione delle funzioni cardio-circolatorie, secondo i tradizionali parametri medico-legali, ma molto più tardi, quando le strutture chimiche e i tessuti corporei  iniziano a disintegrarsi, raggiungendo rapidamente un livello di disfacimento cui nessuna tecnologia esistente è in grado di porre rimedio. Ne deriva che tali cadaveri, sottoposti a crioconservazione, non sono corpi di uomini defunti, non sono, a rigore, cadaveri, ma esseri umani tenuti in sospensione tra la vita e la morte, in una terra di nessuno, fuori dal tempo, e in uno spazio quantomeno peculiare, e non meno inquietante dello spazio tradizionale di un camposanto: i corpi dei pazienti “interi” sono infatti stipati all’interno di giganteschi termos cilindrici pieni di azoto liquido, disposti in cerchio attorno a una colonna centrale, nella quale sono conservate le teste dei neuro-patient.

Indubbiamente una promessa di resurrezione che impone di accettare una forma di “sepoltura” comunitaria quantomeno macabra. Ma quel che conta è il messaggio di fondo e la promessa che spinge molti nostri contemporanei a concludere un contratto con la Alcor: l’idea che la crioconservazione sia solo una fase transitoria, una tappa di un lungo cammino verso una umanità nuova, liberata dalla idea stessa di corpo, verso un unfleshed future, reso possibile da uno sviluppo drammatico delle wearable technologies: uno scenario non troppo lontano nel quale il soma, il buon vecchio ma fedifrago corpo umano, sarà rimpiazzato da un device antropomorfo, flessibile, riparabile, non soggetto a usura, controllato e diretto da un software che altro non è che una mente e una coscienza umana precedentemente “uploadata” e resa eterna. Se poi quella che ne deriva possa ancora definirsi vita, e se una “vita” umana così trasfigurata e addirittura resa eterna sia desiderabile è decisamente un altro discorso.

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